Firenze, 30 giugno 2016 – Sul podio del mese di giugno, sul gradino più alto, Giuseppe Ungaretti con il suo post incentrato su Veglia dal titolo Anniversario Ungaretti (1970-2016). A ruota, a pari merito, Leopardi e l’accoppiata straordinaria Pier Paolo Pasolini-Ezra Pound, con la celebre, splendida intervista dell’autunno 1967 (La tomba ignuda. Giacomo Leopardi e Pasolini incontra Pound, con il suo seguito ‘Strappa da te le vanità’. Ancora Pound e Pasolini). Bronzo, infine – un bronzo che non può che renderci felici, considerata la stima che abbiamo di lei – a Patrizia Valduga, con Vuota il sacco, su, parla poetessa. Patrizia Valduga, e, di nuovo alla pari, a un poeta tutto da rileggere come Attilio Bertolucci, con Attilio Bertolucci e il garzone di falegname.

Ed ora la scelta tra i commenti ungarettiani più significativi. Selezioniamo stavolta con larghezza quelli di Matteo Mazzone, framo, Duccio Mugnai e giacomotrinci. Rispettivamente: “Dall’accenno futurista delle prime prove, fino alla negativa consapevolezza dell’esperienza avanguardistica di inizio secolo, la poesia di Ungaretti si fa voce intima e testimonianza assoluta dell’uomo, caricandosi di quella valenza prettamente sacra che ne impedisce ogni annientamento ed ogni cancellazione da parte della storia e della memoria: attraverso i retaggi del simbolismo francese e tramite una propria personale elaborazione dello scritto, essa si fa non solo resocontistico bozzetto anti-idilliaco sulle tragicità della guerra, ma immette il germe sempre più nuovo della speranza, della rinascita umana che deve, sostanzialmente, concretizzarsi nella riscoperta del dono della vita. Sull’onda della fonte leopardiana e del finto annegamento, la preziosità della vita è materia oscura alla pseudo-razionalità umana finché questa non è messa in grave repentaglio. Alla vitalistica riscoperta della vita parallelamente Ungaretti porta avanti una personale ricerca sul dolore, sentito ma silenzioso: un filo di ferro  rugginoso che corrobora il cuore e l’animo del poeta: prima la guerra, poi il fratello, ancora il figlio, infine la moglie, lasciandolo, come lui stesso dirà a Pasolini in Comizi d’amore un ‘povero vecchio’. Solo. Pseudo-futurista, sperimentalista, analogista-simbolista, poeta puro e per alcuni ermetico, rondista, Ungaretti elabora forme e segni, restando inconfondibile voce magistrale per generazioni poetiche a venire”; “L’opera di Ungaretti attraversa davvero il Novecento fino alla morte del poeta, avvenuta nel 1970. Più la si conosce, più si apprezzano le forme ed i sentimenti più diversificati, concretizzati nella parola; ad esempio, amo moltissimo anche la conclusiva realizzazione lirica intitolata Il Taccuino del vecchio, dove, infine, il beduino scopre dalle sabbie del deserto ‘un ossame bianchissimo’. E’ un ritorno senza infingimenti, ma nella pace, alle origini mortali, seppur vivissime, in senso antico-esistenziale e mitico. Il componimento Veglia, peraltro già presente nel seme germinativo poetico di Il porto sepolto, mi ha sempre impressionato, fin da quando ero ragazzino. E’ pedagogico, positivamente devastante; la poesia mette il luce il carattere distruttivo, orrendo e spietato della guerra, così incompatibile con l’essenza più profonda, d’amore, che pertiene alla vita. Del resto, tutta la raccolta L’Allegria vive non solo di dissonanze, ma di contrasti stridenti, che ‘allegano i denti’, come scriverebbe qualcuno; si va da Vanità, i cui “sintagmi volatilizzati” erano tanto amati da Pasolini di Passione e ideologia, quando l’uomo ‘si rinviene / un’ombra // cullata e / piano / franta’, alle scarnificate, misteriose, ma tragiche parole di Attrito, dove l’essere umano può essere ‘la misera barca’ o spietatamente e morbosamente, negando la sua umanità (spesso capita davanti al pericolo più terribile), ‘l’oceano libidinoso'”; “Che lezione contro i vaniloqui e il peso morto di tanta artefatta verbosità odierna. Quella che qui erompe è la Parola in sé, pregna di quello stesso sangue raggrumato che, dal rigonfiamento tumefatto delle mani di un fratello spirato accanto, attraverso lo sgomento per la morte respirata, non si fa cadavere ma deflagra… condensato di corpo vero e vivo che reclama vita. Ungaretti per sempre”; “Ogni volta che incontriamo, come lettori distratti dal mare magnum di una contemporaneità sfuggente, la poesia dell’Ungaretti dell’ ‘Allegria’, nelle sue punte anche più note, come è il caso di questa ‘Veglia’ di guerra, ci viene davanti quell’idea di poesia come vita, forma immediata di conoscenza del reale, che sembra così lontana, oggi; nel disincanto di ‘ismi’ ripercorsi e confusi nel cinismo delle forme e delle norme, la spudorata innocenza e verità di questi versi, si presenta sempre, però, disturbante e piena, concreta e materica. Lontana e scandalosa, insieme. La perfezione del taglio nella parola impone la propria fulminea esattezza, inesorabilità. A contatto del reale del trauma, sembra non esserci storia delle forme che tenga: tutto è lì, nel tremare eterno e istantaneo, insieme del contatto col vuoto, col niente da dire. E’ questa scommessa col silenzio, col niente, che genera la pregnanza di questa parola: tramendamente nostra, in questi nostri tempi di guerra non detta,non dichiarata, ma presente ogni giorno. E in questa nostra povera umanità senza più parole”.

Buona estate con le “Notizie di poesia”, che fanno vacanza continuando indefessamente le loro pubblicazioni a ritmo quotidiano! A presto, a domani,

Marco Marchi

Anniversario Ungaretti

VEDI I VIDEO “Veglia” , “Fratelli” letta dal poeta , “I fiumi” letta da Vittorio Gassman , Ungaretti si racconta , Ungaretti intervistato da Pasolini (da “Comizi d’amore”, 1965) , “Inno alla morte” letto da poeta

Firenze, 2 giugno 2016 – Ricordando che ricorreva ieri l’anniversario della morte di Giuseppe Ungaretti (Milano, 1 giugno 1970).

Al di là dell’indubbia grandezza monografica di un’opera, Giuseppe Ungaretti è stato e resta un poeta centrale del Novecento italiano nella misura in cui ha saputo rappresentare possibilità della poesia moderna: possibilità effettive e tra loro diverse – contrastanti e perfino internamente al sistema Ungaretti antitetiche, se Ungaretti è stato il poeta di Allegria di Naufragi e quello del Sentimento del Tempo –, svolte in un contesto specifico (e di volta in volta mutevolmente specifico), con le sue particolarità, i suoi sviluppi, i suoi vantaggi e i suoi ritardi rispetto ad altre tradizioni.

Ungaretti ha vissuto da protagonista un secolo, di quel secolo nutrendosi e a quel secolo facendo scuola. Vita d’un uomo, appunto: siamo con un titolo più volte riconfermato, più di altri ritenuto valevole, riassuntivo di esiti e prima ancora di una disposizione, al nodo cruciale in cui le ragioni della biografia e quelle della produzione letteraria, la vita e la poesia, si affrontano, cercano i loro punti di contatto e insieme demarcano autonomie, siglano competenze.

In realtà paesaggi e scenari biografici presto in Ungaretti si confondono, si annullano e si trasfigurano. La trincea sarà tra poco, per lui proveniente da Alessandria d’Egitto desideroso di appartenenze e patrie ritrovate, un nuovo deserto. Nasce la poesia di Ungaretti, ed anche la partecipazione del poeta alla Grande Guerra reagisce di comporto, nel senso di un’incidenza molto personalizzata di eventi, da «vita d’un uomo».

Il poeta, l’«uomo di pena», le parole, l’armonia. Il «processo di raccoglimento che poté essere aiutato dalla vicenda umana della guerra» presupposto con evidente cautela da un critico acuto come Gianfranco Contini risulta già impostato, se Parigi – laddove una strumentazione storicamente e ibridamente si forma collegando a ritroso Apollinaire a Mallarmé e Mallarmé a Guérin – si è ridotta a «grigi inenarrabili» e anzi, ancora citando, a «sfumature all’infinito smorzate del colore».

Analogamene la nebbia di Milano, dove ad esempio Ungaretti frequenta la casa di un pittore d’avanguardia come Carrà, si è risolta in un «sentimento d’infinito», ed ogni ambiente esterno ha sedato in partenza rivolte riconducibili ad altri mezzi e ad altre impostazioni, profilando invece, preminenti, i confini dell’io per una cattura in parole della libertà, dell’invocata armonia, dell’innocenza.

La guerra rivela ad Ungaretti – «improvvisamente», come il poeta sottolinea – il linguaggio. E tuttavia il carattere traumatico, drammatico e liberatorio di una condizione registrata ha maturato non da ora risorse e possibilità, ha avuto e avrà bisogno di cultura per ritrovarsi così stabilito ed espressivamente soddisfatto. Perfino il topos romantico-simbolista dell’étranger, aggiornabile e personalizzabile in quello dello «spatriato», si è definito tramite Guérin e Baudelaire, tramite Leopardi: i poeti.

Purificata, ricondotta al suo valore fondante e incorruttibile di monade interna, la parola essenziale cui Ungaretti perviene torna così ad essere il primo atomo di un discorso di rottura senza confronti, ma anche di una conquista ulteriore, imprevista e più ampia: una ricomposizione già agisce all’interno della raccolta, specificandosi in metri sotterranei, sia pure contrastati da una pronuncia rilevata ed isolante di vocaboli, sillabe e suoni.

Si annuncia la ricomposizione del «lungo dissidio» fra tradizione e invenzione, ordine e avventura, che sarà valida fino agli anni estremi. La parola ungarettiana si immerge nel verso, lo ricompone e lo ritrova, tenta un nuovo canto. E sarà l’endecasillabo che suggella Preghiera a gettare un ponte – complice il variantismo, in Ungaretti antistoricamente costitutivo e sistematico –  tra L’Allegria e Sentimento del Tempo: «Quando il mio peso mi sarà leggero / il naufragio concedimi Signore / di quel giovane giorno al primo grido».

Marco Marchi

Veglia

Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Non sono mai stato 
tanto 
attaccato alla vita

Giuseppe Ungaretti

(da L’Allegria)

I VOSTRI COMMENTI

Matteo Mazzone
Dall’accenno futurista delle prime prove, fino alla negativa consapevolezza dell’esperienza avanguardistica di inizio secolo, la poesia di Ungaretti si fa voce intima e testimonianza assoluta dell’uomo, caricandosi di quella valenza prettamente sacra che ne impedisce ogni annientamento ed ogni cancellazione da parte della storia e della memoria: attraverso i retaggi del simbolismo francese e tramite una propria personale elaborazione dello scritto,essa si fa non solo resocontistico bozzetto anti-idilliaco sulle tragicità della guerra, ma immette il germe sempre più nuovo della speranza, della rinascita umana che deve, sostanzialmente, concretizzarsi nella riscoperta del dono della vita. Sull’onda della fonte leopardiana e del finto annegamento, la preziositàdella vita è materia oscura alla pseudo-razionalità umana finché questa non è messa in grave repentaglio. Alla vitalistica riscoperta della vita parallelamente Ungaretti porta avanti una personale ricerca sul dolore, sentito
ma silenzioso: un filo di ferro rugginoso che corrobora il cuore e l’animo del poeta: prima la guerra, poi il fratello, ancora il figlio, infine la moglie, lasciandolo, come lui stesso dirà a Pasolini in “Comizi d’amore” un “povero vecchi”. Solo. Pseudo-futurista, sperimentalista, analogista-simbolista, poeta puro e per alcuni ermetico, rondista, Ungaretti elabora forme e segni, restando inconfondibile voce magistrale per generazioni poetiche a venire.

framo
Che lezione contro i vaniloqui e il peso morto di tanta artefatta verbosità odierna. Quella che qui erompe è la Parola in sé, pregna di quello stesso sangue raggrumato che, dal rigonfiamento tumefatto delle mani di un fratello spirato accanto, attraverso lo sgomento per la morte respirata, non si fa cadavere ma deflagra… condensato di corpo vero e vivo che reclama vita. Ungaretti per sempre. Grazie.

Perdindirindina
È verissimo. Non ho mai vissuto un’esperienza simile, e spero non mi accada mai. Ma quanto più la morte e la nostra vulnerabilità si rivelano a noi vicine, tanto più ci attacchiamo all’amore. È in questi momenti che si comprende quanto esso si identifichi col nostro istinto di sopravvivenza.

Duccio Mugnai
L’opera di Ungaretti attraversa davvero il Novecento fino alla morte del poeta, avvenuta nel 1970. Più la si conosce, più si apprezzano le forme ed i sentimenti più diversificati, concretizzati nella parola; ad esempio, amo moltissimo anche la conclusiva realizzazione lirica intitolata Il Taccuino del vecchio, dove, infine, il beduino scopre dalle sabbie del deserto “un ossame bianchissimo”. E’ un ritorno senza infingimenti, ma nella pace, alle origini mortali, seppur vivissime, in senso antico-esistenziale e mitico.
Il componimento Veglia, peraltro già presente nel seme germinativo poetico di Il porto sepolto, mi ha sempre impressionato, fin da quando ero ragazzino. E’ pedagogico, positivamente devastante; la poesia mette il luce il carattere distruttivo, orrendo e spietato della guerra, così incompatibile con l’essenza più profonda, d’amore, che pertiene alla vita. Del resto, tutta la raccolta L’Allegria vive non solo di dissonanze, ma di contrasti stridenti, che “allegano i denti”, come scriverebbe qualcuno; si va da Vanità, i cui “sintagmi volatilizzati” erano tanto amati da Pasolini di Passione e ideologia, quando l’uomo “si rinviene / un’ombra // cullata e / piano / franta”, alle scarnificate, misteriose, ma tragiche parole di Attrito, dove l’essere umano può essere “la misera barca” o spietatamente e morbosamente, negando la sua umanità (spesso capita davanti al pericolo più terribile), “l’oceano libidinoso”.

5555
Fin dagli esor­di l’anomalia dell’itinerario biografico di Ungaretti, figlio di “spatriati” lucchesi ad Alessandria d’Egitto, persino in senso linguistico elementare è attiva: all’insegna della extraterritorialità, della divisione, della molteplicità che si risolve in forme di smarrimento e di disagio, in mancanza di appartenenze condivise e punti di riferimento certi. Ungaretti vive la sua infanzia e la sua giovinezza in un ambiente trilingue, fra le sollecitazioni provenienti dalla fa­miglia italiana, dal mondo arabo e dalla cultura francese: uno spaesamento, una miscela di suggestioni disorientanti di premessa al grande, traumatico smarrimento della guerra combattuta sul Carso. All’immagine del deserto si sommano però, precocemente, elementi fondamentali median­te i quali l’input originario si rafforza e trova conforto. Fin dagli infelicissimi anni trascorsi al Collegio Don Bosco e poi alla rinomata Ecole Suisse Jacot si rivela efficiente un bagaglio culturale in crescita, tra rispecchiamento e superamento, che annovera tra i suoi esempi rintracciabili Leopardi e Baudelaire, Nietzsche e Mallarmé.

Isola Difederigo
Sono tutte “lettere piene d’amore” le poesie che Ungaretti è andato scrivendo e riscrivendo in mezzo ai tanti deserti attraversati durante la sua lunga “vita d’un uomo”, e restano una testimonianza fra le più alte della poesia del Novecento.

m
Di tutti gli “ingredienti” culturali che lo hanno influenzato, Ungaretti ha fatto qualcosa di decisamente personale, nuovo ma immediatamente sottratto al tempo: un classico puro. Leggerlo e rileggerlo è un’esperienza che, generazione dopo generazione, si dimostra inesauribilmente feconda.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Versi densi, pregnanti, duri come solo la guerra può esserlo: questa lirica di Ungaretti ci percuote, a quasi un secolo di distanza, per la forza devastante delle antitesi su cui si fonda, su cui si regge l’umanità, da sempre. Vita-morte, quindi, innanzi tutto e poi, più sfumate, leggibili in parte e silentio, ma non meno potenti, odio (della guerra) e amore, silenzio (di una notte in trincea e più in generale dell’uomo di fronte all’orrore della violenza) e parola, intesa come parola scritta (le lettere d’amore) e insieme come voce del poeta che rompe il silenzio assordante di un conflitto bellico disumano con il suo grido d’amore.

Daniela Del Monaco
In “Veglia” il senso della morte deriva dalla morte dell’altro, rappresentato espressionisticamente con una forza quasi caricaturale. Non vi è stasi, né pace in quella morte, anzi, è come se il movimento fosse stato bloccato per sempre nell’immagine drammatica della bocca digrignata rivolta alla luna, simbolo della bellezza della vita.
E’ con le mani congestionate del compagno ucciso, mani che hanno penetrato il silenzio che lo circonda, che Ungaretti sembra scrivere la sua poesia di denuncia della morte e al tempo stesso di resistenza alla sua opera di distruzione. Gli ultimi versi testimoniano il suo profondo attaccamento alla vita, un attaccamento non egoistico ma sentito come atto di protesta e di riscatto contro le atrocità della guerra e come proclamazione del diritto degli uomini, di tutti gli uomini, di vivere.

diTata
Bellissimi versi molto attuali

giacomotrinci
Ogni volta che incontriamo, come lettori distratti dal mare magnum di una contemporaneità sfuggente, la poesia dell’Ungaretti dell’Allegria, nelle sue punte anche più note, come è il caso di questa “Veglia” di guerra, ci viene davanti quell’idea di poesia come vita, forma immediata di conoscenza del reale, che sembra così lontana, oggi; nel disincanto di “ismi” ripercorsi e confusi nel cinismo delle forme e delle norme, la spudorata innocenza e verità di questi versi, si presenta sempre, però, disturbante e piena, concreta e materica. Lontana e scandalosa, insieme. La perfezione del taglio nella parola impone la propria fulminea esattezza, inesorabilità. A contatto del reale del trauma, sembra non esserci storia delle forme che tenga: tutto è lì, nel tremare eterno e istantaneo, insieme del contatto col vuoto, col niente da dire. E’ questa scommessa col silenzio, col niente, che genera la pregnanza di questa parola: tramendamente nostra, in questi nostri tempi di guerra non detta,non dichiarata, ma presente ogni giorno. E in questa nostra povera umanità senza più parole.

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