VEDI I VIDEO “L’ascensore” , “Preghiera” letta dal poeta , “Preghiera” e altre poesie dai “Versi livornesi” , Giorgio Caproni su “Il passaggio di Enea”, con lettura d’autore di “Marz0” , “Il mare come materiale”

Firenze, 16 luglio 2016 ‑ Anche nel trattamento dell’implicante tema materno letteratura e vita si saldano in Giorgio Caproni nella derivazione, nella memo­ria personale e in quella culturalmente collettiva, con compiacimento o con fastidio poco importa: come, esem­plarmente, nei due episodi di citazionismo proposti in forma narrativa nelle pagine del Labirinto, dove il grande Manzoni dell’Adelchi o una meno illustre romanza di un libretto d’opera sono alla pari.

Nel Gelo della mattina, con tutta probabilità il più bel racconto scritto da Caproni, la sintassi del patetico che stilisticamente segnala la crucialità del momento storico-biografico di sottofondo tro­va il suo sfocio, il suo amato-odiato punto fermo nella contra­stata ma soddisfatta impellenza di versi: «Fu come se un’im­provvisa frustata m’avesse colpito in pieno la bocca che stava per chiedere perdono, e io allora nello stesso istante in cui un lago di lacrime lo sentivo invadermi caldissimo gli occhi, io co­me mai, guardandola così madida e perduta sul cuscino chie­dermi disperatamente amore per non morire “così”, io dentro di me, ubriacato o impietrito Dio sa da cosa, mi misi a scandire scostato questi versi tentando nello stesso istante con la più ap­passionata volontà di soffocarne il rigurgito? Sparsa le trecce mor­bide…”». «Sgorgo stupido e lugubre di versi imparati a scuola», commenta qui lo scrittore. È l’«erba inutile delle parole» che torna a spuntare in una stanza: l’«acerba / serra di delicato inganno» (I lamenti).

Ed eccoci al Seme del piangere. «A mia madre, Anna Picchi»: il rimorso, il pentimento e la riconoscenza alla base dell’ispirazione dei Versi livornesi si con­centrano in una dedica. Il poeta offrirà alla persona amata solo parole, suoni; si servirà di parole e suoni per poterglieli offrire, per far sì che lei ci sia ad accoglierli, come ora è lì a rimprove­rarlo e a dimostrargli immutato il suo bene, la sua preoccupa­zione. Ed ecco subito efficiente, mediante un’epigrafe da Purga­torio, canto XXXI, vv. 45-46, la Divina Commedia, con l’atto stesso della scrit­tura espressamente richiesto da Beatrice, sul filo del sicuro discernimento che essa ha dei rapporti che Dante deve intrat­tenere con il «mondo che mal vive»: una richiesta che sottin­tende assoluta devozione, che impegnerà «la mente e li occhi» (canto XXXII, vv. 103-108).

E’ ancora Beatrice, d’altronde, nel corso della seconda requisitoria, ad aprire la ferita più profonda a chi sa di dover scrivere, proponendo il problema conciliativo di na­tura e arte attraverso l’impiego frettoloso di una preposizione disgiuntiva. L’enucleata competitività delle due sfere è posta per di più sotto il segno del «piacer», con netta predominanza assegnata al secondo termine del binomio in una riaffermazio­ne esclusiva, personalistica al massimo, di quanto belle furono le «membra in ch’io / rinchiusa fui, e sono in terra sparte» (can­to XXXI, vv. 50-51). La propria morte, immediatamente pri­ma richiamata come mancato spartiacque etico-comportamentale per il poeta sopravvissuto, vale perentoriamente nei termini di «carne sepolta» (v. 48). Beatrice, del resto, troneggia quale esclu­siva detentrice del sommo piacere nella concentrata annominatio del v. 53: «per la mia morte, qual cosa mortale». Ed è così che Anna Picchi diventa madre di Caproni fin da quando, per i mortali, è stata Anna Picchi, con quel cognome da ragazza che resiste con il suo suono rapido, scattante e risoluto.

E come si scrive nel Seme del piangere? Il poeta scrive e riscri­ve «il pianto che (…) bagna la mente» con un pennino che scric­chiola e che rima con cerino. È un poeta fantolino, che al cerino ha già legato un’immagine significativa di sé in All alone (Dida­scalia).

Un vero suffisso diminutivo è, a ben vedere, già recuperabile nell’Ascensore, nel Passaggio di Enea, ed è responsabile di una rima di questo genere: «Ci andrò rubando (forse / di bocca) dei pezzet­tini / di pane ai miei bambini» (vv. 11-13). Ecco «fra la ragazzaglia», pensando di andare in paradiso «nelle ore notturne», pri­ma che Il seme del piangere prenda forma, l’apparizione di Annina, anch’essa ormai al diminutivo per un distanziato, affettuosissimo rimbalzo ritmico: «Ma la sentirò alitare / la luce ne­ra del mare / fra le mie ciglia, e… forse /(forse) sul belvedere / dove si sta in vestaglia, / chissà che fra la ragazzaglia / aizzata (fra le leggiadre / giovani in libera uscita / con cipria e odor di vita / viva) non riconosca / sotto un fanale mia madre. // Con lei mi metterò a guardare / le candide luci sul mare. / Staremo alla ringhiera / di ferro — saremo soli / e fidanzati, come / mai in tanti anni siam stati. / E quando le si farà a puntini, / al bri­vido della ringhiera, / la pelle lungo le braccia, / allora con la sua diaccia / spalla se n’andrà lontana: / la voce le si farà di cera/ nel buio che la assottiglia, / dicendo “Giorgio, oh mio Giorgio / caro: tu hai una famiglia”» (vv. 14-39).

Annina, madre-fidanzata per magri bambini, sotto un fanale; «la luce nera del mare», «le candide luci sul mare». Il mare che rima con alitare, con guardare: anche le «rime usuali: in -are, aperte, ventilate» in suo onore, di nuovo a ben vedere, già attive.

Marco Marchi

L’ascensore

Quando andrò in paradiso
non voglio che una campana
lunga sappia di tegola
all’alba ‑ d’acqua piovana.

Quando mi sarò deciso
d’andarci, in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto, nelle ore notturne,
rubando un poco
di tempo al mio riposo.

Ci andrò rubando (forse
di bocca) dei pezzettini
di pane ai miei due bambini.
Ma là sentirò alitare
la luce nera del mare
fra le mie ciglia, e… forse
(forse) sul belvedere
dove si sta in vestaglia,
chissà che fra la ragazzaglia
aizzata (fra le leggiadre
giovani in libera uscita
con cipria e odor di vita
viva) non riconosca
sotto un fanale mia madre.

Con lei mi metterò a guardare
le candide luci sul mare.
Staremo alla ringhiera
di ferro – saremo soli
e fidanzati, come
mai in tanti anni siam stati.
E quando le si farà a puntini,
al brivido della ringhiera,
la pelle lungo le braccia,
allora con la sua diaccia
spalla se n’andrà lontana:
la voce le si farà di cera
nel buio che la assottiglia,
dicendo “Giorgio, oh mio Giorgio
caro: tu hai una famiglia.”

E io dovrò ridiscendere,
forse tornare a Roma.
Dovrò tornare a attendere
(forse) che una paloma
bIanca da una canzone per radio,
sulla mia stanca
spalla si posi. E alfine
(alfine) dovrò riporre
la penna, chiuder la càntera:
“É festa”, dire a Rina
e al maschio, e alla mia bambina.

E il cuore lo avrò di cenere
udendo quella campana,
udendo sapor di tegole,
l’inverno dell’acqua piovana.

Ma no! se mi sarò deciso
un giorno, pel paradiso
io prenderò l’ascensore
di Castelletto, nelle ore
notturne, rubando un poco
di tempo al mio riposo.

Ruberò anche una rosa
che poi, dolce mia sposa,
ti muterò in veleno
lasciandoti a pianterreno
mite per dirmi: “Ciao,
scrivimi qualche volta,”
mentre chiusa la porta
e allentatosi il freno
un brivido il vetro ha scosso.

E allora sarò commosso
fino a rompermi il cuore:
io sentirò crollare
sui tegoli le mie più amare
lacrime, e dirò “Chi suona,
chi suona questa campana
d’acqua che lava altr’acqua
piovana e non mi perdona?”

E mentre, stando a terreno,
mite tu dirai: “Ciao, scrivi,”
ancora scuotendo il freno
un poco i vetri, tra i vivi
viva col tuo fazzoletto
timida a sospirare
io ti vedrò restare
sola sopra la terra:

proprio come il giorno stesso
che ti lasciai per la guerra.

Giorgio Caproni

(da Il passaggio di Enea)

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