VEDI I VIDEO La vita e le opere: “Tozzi, la scrittura crudele” , L’inizio del romanzo “Il podere” , Scene da “Con gli occhi chiusi” di Francesca Archibugi (1994) , “Nel paese di mio padre”, testo scenico da opere di Federigo Tozzi

Firenze, 22 luglio 2016 – In Federigo Tozzi, continuativamente, gli occhi si chiudono. Si pensi a un titolo iridescente e bellissimo come quello del suo romanzo maggiore, Con gli occhi chiusi: quasi una sigla, un suggello di poetica compendiario persino di modalità culturali che l’esercizio dello scrittore ha ritenuto necessarie e imprescindibili, se gli occhi chiusi di una titolazione felicissima sottintende la psicologia del pragmatista americano William James non meno di letterarizzate suggestioni mistico-religiose.

Specchi d’acqua è una raccolta di versi di ispirazione esibitamente religiosa, da ricondurre agli anni della collaborazione dello scrittore a «L’Eroica» di Ettore Cozzani e della più intensa amicizia con Domenico Giuliotti.  Nelle quartine di Maiolica dipinta che abbiamo scelto per queste Notizie, inaugurato da uno di quei verbi di sensazione tipici dell’idioletto dello scrittore, il visionarismo culturalmente confortato di Tozzi si formalizza con esattezza in uno squarcio di universo jamesianamente percepito al di là del «nero schermo delle palpebre».

Tutto è rimasto intriso di tenebre: cupo, caliginoso, algido, oltretombale e sinistro come il gracchiare che a tratti interrompe il silenzio. Dominano immagini dell’abnormità e della malattia, della corruzione, della pesantezza e del buio: un universo oscuro in cui anche le più tipiche creature celesti come la luna e gli uccelli (Leopardi!) si sottraggono alla leggerezza e al tradizionale decorativismo lirico loro appannaggio, facendosi portavoce di una disfunzione che è di tutto l’esistente e svelando l’altra faccia della medaglia, il loro «crudo vero» sostanziale. A ribadire il falso, con esponenziale distanziamento rappresentativo rispetto alle illusorie e già fittizie superfici riflettenti presupposte dalla titolazione generale Specchi d’acqua, contribuisce il titolo della lirica: Maiolica dipinta, appunto.

La «veste» creazionale predicata dalla raccolta nei termini di una generosa elargizione del Signore si è del resto rivelata altrove, senza infingimenti o speranze residue, un «mantello» della disappartenenza, proprietà esclusiva di un Dio geloso. Compare al v. 10 del componimento l’«anima», ancora all’insegna di un verbo di sensazione come «sentire», ma slontanata, cronologicamente arretrata all’inizio del mondo e risoltasi a sua volta, adesso, secondo la memoria irresistibile dell’Eden, in uno sguardo a ciglio asciutto nello «specchio» di una fontana e in un abbraccio di compassione impaurita. Si torna prepotentemente a pensare ancora a Leopardi, e a ripensare a Dante e a Leopardi, insieme, nell’endecasillabo conclusivo della prima quartina: «che nell’asse infinito mi s’impernia».

È, per Tozzi, il day after della cacciata. Perduta l’anima, il distacco dal Paradiso terrestre spezza qualsiasi forma di solidarietà naturale e trasforma l’essere che avrebbe dovuto costituire l’immagine di Dio in reperto anatomico devitalizzato e inerte: un cuore precipitato, per sempre sospeso e insieme immobile (da «esausto, che trema», per il quale «il peso della terra è troppo lieve» del sonetto A Domenico Giuliotti). La «colpa» (la rima con «polpa» è dantesca: cfr. Inf. XXVII, vv. 71-72, Pur. XXXII, vv. 120-121, ma anche Pur. XXIV, vv. 80-81; e così, peraltro, «lontana»:«fontana», «deserta»:«erta», «dove»:«muove») si fa cardine e fondamento di un universo mortuario, notturno, abbandonato e desertico, in cui il nero delle sparute creature superstiti che lo abitano – bestie, cose e persone macchiate dal peccato – convive con il nero di ombre che nascondono nuove aggressioni e paurosi agguati.

La dimensione cosmica si riproporrà all’insegna del volontarismo e dell’auspicio liberatorio nel componimento immediatamente successivo della raccolta, specularmente e per contrapposizione anch’esso di quattro quartine, che simbolisticamente dice: «Noi sceglieremo una mattina chiara, / dopo il canto del gallo; e ce ne andremo, / forse per sempre, dove si prepara / la strada nostra. L’anima sia remo! // Ed i giorni saran nostri cavalli / con gli occhi aperti, del color dell’aria; / e sentiremo correr per le valli / una larga canzone planetaria» (39, vv. 5-12).

Gli occhi per un momento si riaprono, il «sonno dei canti» misteriosamente si infrange, la parola sgorga, ogni sete è placata: luminosità, il risveglio di una «larga canzone» di sapore dannunziano (pure in D’Annunzio «cenere dei sogni»), attimali ed improbablili ricongiungimenti a «sorgenti della giovinezza» che valgono però a riconfermare, dialetticamente,  i termini di un contrasto insanabile e una visione tragica del mondo.

Marco Marchi 

Maiolica dipinta

La luna mi pareva come un’ernia
di tutto il cielo simile alla polpa
d’un frutto marcio come la mia colpa,
che nell’asse infinito mi s’impernia.

E qualche uccello nero se ne andava
gracchiando alle pareti delle nebbie;
e le ombre lo battevan come trebbie.
E dopo solo e triste mi lasciava.

Ma non sì solo che Eva con Adamo
non sentissi in un’anima lontana;
e stringendoci insieme, a una fontana
senza lacrime poi ci specchiavamo.

E sopra la montagna più deserta
cadde il mio cuore; ma non so da dove.
E da quel luogo mai più non si muove,
come se fosse abbarbicato all’erta.

Federigo Tozzi 

(da Specchi d’acqua, in Le poesie, a cura di G. Tozzi, 1981)

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