Firenze, 31 luglio 2016 – Il post del mese di luglio è Il Trinci che verrà. A decretarne la vittoria i molto numerosi e molto acuti commenti e un vasto consenso proseguito in parallelo sulle colonne del nostro social fb del Premio Letterario Castelfiorentino. Un’ovazione di visualizzazioni e di ‘I like’ cui ha fatto riscontro, con un argento nel contempo insidioso ma più che altro qualificante, il post luziano Luzi, Francesconi e l’infinito ritrarre. A ruota, ancora una volta a poca distanza, ancora una volta con molti commenti, E fu giorno. Pascoli.

Del podio così configuratosi ci piace sottolineare, in controluce ravvisabile e a nostro avviso valorizzabile, una sorta di continuità generazionale in progressione che dal contemporaneo Giacomo Trinci risale a ritroso alla centralità novecentesca di un protagonista quale Mario Luzi, per ricongiungersi poi all’inaugurazione di un secolo qui rappresentata dal magistero di Pascoli.

Tra i commenti alle tre poesie inedite di Giacomo Trinci, copiosi come accennavamo e molto validi, privilegiamo quelli di Matteo Mazzone, tristan51 e Damiano Malabaila. Rispettivamente: “Una splendida voce che si assottiglia a suono, un caro suono ora dissonante, ora casto e puro, vergine sussulto sussultante, parola magica che si dischiude e nasce, per poi rinascere infingardamente. Giacomo saltimbanco, Giacomo serio, Giacomo uomo di vita, come caro a noi è il nostro Pierpaolo: umile sentimento, approccio preciso e formato, suono curato, svestito di bizzarre romanticherie spiritate, di pazzoidi incroci giochi. Tutto è calmo e fuori dal tempo: con Giacomo (per Giacomo) si riassapora il caldo flusso esistenziale, la goccia demiurgica vitale del mondo. Un mondo malato, lussurioso, smerdato, abbandonato ma ritradotto, volto in una nuova chiave spensierata, dimessa ed aggraziata. Una poesia staccata ma complice, partecipe ma isolata: un’onda genuflessa, una nidiata carezza non gridata. Ti voglio bene Giacomo!“; “I vincoli con le origini e con la fine che chi scrive instaura tornano in questi versi a farsi più stretti, al punto che la raccolta in via di definizione sarà con tutta probabilità una sorta di splendido, distanziato corollario analitico a quanto “Cella” già magnificamente per suo conto, nel 1994 registrava. Lì l’io risaliva all’ante-vita: partecipava allo scontro amoroso tra il Padre e la Madre, si insinuava nella stretta che lo faceva gemere ed imprecare, nascere e morire, aggiungendo febbre a febbre, ansito a ansito, sporcandosi e amando fino in fondo, per poi ritrovarsi – tra Rimbaud e il Pasolini dell’“Usignolo” – figlio appeso a quella croce, inchiodato. Tutto questo rende del tuttol indilazionabile, credo, la disponibilità in libreria dell’opera prima di Giacomo Trinci. Un editore serio, degno di testi così alti si faccia avanti!“; “Oggi che tutti vogliono essere poeti (e alla troppa intenzione spesso non corrisponde l’invenzione), Giacomo Trinci, senza strepiti, lo è davvero. Davvero è uno che ‘sente’ più degli altri e la sua rigogliosa forza creativa si trasforma sempre in un dettato personalissimo e inconfondibile. Certo, si può pensare a Leopardi, Pasolini, Rimbaud, Betocchi, Valduga, addirittura Heine (credo che a Heine queste poesie piacerebbero), ma Trinci – poeta coltissimo – riesce a rimanere decisamente Trinci. Strepitoso, poi, e secondo me molto trinciano il titolo ‘Di vita, troppa’; perché, come diceva Lee Masters, ‘It takes life to love Life’…“.

Buona estate e a domani!

Marco Marchi

Il Trinci che verrà

VEDI I VIDEO Io scrivo poesie. Giacomo Trinci ed altri poeti a Castelfiorentino (2005) , Trinci su Italo Svevo, con sue poesie dedicate allo scrittore (2012) , Trinci legge da “Inter nos” (da 5:00) , … e ancora da “Inter nos”

Firenze, 13 luglio 2016 – Un’importante anteprima per i lettori di questo blog, oggi: tre nuove poesie di Giacomo Trinci, tre tessere testuali inedite di un libro prossimo ancora in piena formazione.

“Sono componimenti che originariamente facevano parte di un corpus di un centinaio di lieder – ci spiega il poeta –, ciascuno con il suo titolo-argomento. Stavo rileggendo e riflettendo sulla forma che Pasolini stava dando nella raccolta L’hobby del sonetto, decisiva drammatica estrema svolta in cui si cortocircuita lingua della poesia e dell’io in apparente presa diretta. La mia raccolta, liberamente ispirata da questo Pasolini estremo, sposta la forma del suo parasonetto nella sua traduzione in lied per musica, nel sogno di una partitura musicale dove rigore è libertà, rifondazione scandalosa di una lingua in fuga dal già detto, scontato, fondato“.

Anche il titolo dell’opera attualmente in progress risulta per il momento incerto, sommamente instabile: vortica attraversa una miriade di possibilità non ancora definite, forse neppure tutte per adesso profilatesi o semplicemente balenate a colui che scrive. Si va dal tentativo di configurare un personaggio già liberato dal peso del corpo-soggetto (il barbone intellettuale già sondato nella sezione dei “passaggi di Barbone” in Inter nos, per cui vedi un nostro precedente post) che un po’ leopardianamente rende formalizzabili e come un lascito ci consegna un Libro dei canti, a un titolo più tecnico e internamente ossimorico come Variazioni senza tema, dove appunto il tema assente, la radice prima del poetare che latita e si rende tragicamente irreperibile, si situa comunque fuori dal testo, attendendo e nel contempo avanzando, incombendo immobile e pressando: la morte, la padrona di tutto. O ancora, parimenti fuoritesto e giocato su raddoppiati paradossi, un titolo come Di vita, troppa (ad oggi, in questa anteprima, titolo di un singolo componimento), con il recupero in sede di sottotitolo o complemento di titolo che dir si voglia, di valore evidentemente antifrastico-parodico, del già codificato Variazioni senza tema.

Sta di fatto che nel  libro che verrà di Giacomo Trinci l’assoluto sembra restare decisamente fuoricampo. E’ come se il poeta-scriba che qui ci è dato di cogliere al lavoro attraverso tre splendide prove dal suo laboratorio fosse già scomparso, dislocato altrove, funereamente compiuto, finito; ed è come se quel Trinci postumo a se stesso e a tutto ciò che poeticamente ha rappresentato per lui la propria esistenza visitasse il suo scritto estremo da lontano, rintracciando e cercando di mettere a fuoco principalmente – tra scrupolo e splendore, tramite una sorta di comica assolutezza lirica distaccata e insieme straziante, quasi una musica che vuol dire se stessa e nient’altro – il suo essere stato.

Un libro che si preannuncia, insomma, come un grande libro: un vero evento da attendere che sarà sicuramente degno di quella che non da oggi considero una delle voci poetiche più alte e compiutamente riconoscibili della poesia italiana contemporanea. Per me la più sintonicamente vicina e cara, e diciamolo pure, ma quasi tutti lo sanno e da tanto tempo, la prima.

Marco Marchi

(di vittima carnefice)

per solo sesso, ti condanni alla castità,
alla perpetua vastità del dare
senza passione
(come un monaco monco
ora mi vedo qui,
ma vedo meglio dallo schermo
di questo termine sfinito
che ghermito m’ha di fragile farfalla
battito d’ala e spillo conficcato),
come un tronco di vita solo vita
che più vita non dà, ma di ferita
avanza un resto che rimane in fine,
e santità di pus, di gas infetto
trattiene me di vittima assassino.
tu dici che la vittima possiede,
tu, che impotente la tormenti in mente

(di vita, troppa)

questo qui vedi,
ma casto di lussurie
lussuriosamente vasto

d’ampie incursioni in mente a lungo, a volo,

depravato d’innocenze, le furie,

tenuto stretto nella vita, intorno,

di veglie, macro, ed indecente;

ma d’astinenze abissali
digiuni e pentimenti sfeci me stesso,

consunto di purezza, corrotto consumai,
non ebbi voglie che non soddisfeci, insoddisfatto,
imperfetto m’estinsi quasi tutto, prima di me;

prima di sfarmi, presi di tutto un po’,

non mi contenni mai, fui continente,
mi resta quel che resta qui di tutto:
la tua treccia, canzone, abbandonata.
dura la vita dura, ed io con lei che duro,
anche dopo, d’altrove, oltre ogni muro.

(del vasto e del vano)

quello ch’è vano in te, rendilo niente,
vanificalo puro d’animale,
il sensibile tuo vano di mente
sacrificalo al cielo senza dei,
vita nella tua mano che si sfa
rendila pura d’ogni contingenza,
tu d’ogni circostanza spoglia il fiore,
il cuore del dolore che consola
abiura della sua necessità,
fanne preghiera dura che conforta
che non ha niente fuori d’ogni porta,
quello ch’estraneo suona al tuo passaggio
accogli in te, sbottona la tua veste,
non aggrapparti al fiore d’ogni maggio.

Giacomo Trinci

I VOSTRI COMMENTI

Maria Antonietta Rauti
Bella la rima interna in -ura: pura, abiura, dura… Metrica costruita “imponente e geniale per ricerca del significato, costruzione importante.

Matteo Mazzone
Una splendida voce che si assottiglia a suono, un caro suono ora dissonante, ora casto e puro, vergine sussulto sussultante, parola magica che si dischiude e nasce, per poi rinascere infingardamente. Giacomo saltimbanco, Giacomo serio, Giacomo uomo di vita, come caro a noi è il nostro Pierpaolo: umile sentimento, approccio preciso e formato, suono curato, svestito di bizzarre romanticherie spiritate, di pazzoidi incroci giochi. Tutto è calmo e fuori dal tempo: con Giacomo (per Giacomo) si riassapora il caldo flusso esistenziale, la goccia demiurgica vitale del mondo. Un mondo
malato, lussurioso, smerdato, abbandonato ma ritradotto, volto in una nuova chiave spensierata, dimessa ed aggraziata. Una poesia staccata ma complice, partecipe ma isolata: un’onda genuflessa, una nidiata carezza non gridata. Ti voglio bene Giacomo!

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Una poesia che nasce sommessa, quella di Trinci, che si fa voce sussurrata, frammento di un discorso interiore già iniziato e sorpreso nel suo svolgersi, come il fatto di iniziare sistematicarmente con la minuscola sembra suggerire, ma che a poco a poco alza la voce e fa giungere a noi lettori catturati e disorientati insieme dal gioco di antitesi e di ossimori, una voce poetica essenziale, asciutta, scolpita eppure, nel contempo, ricca di musicalità. Un grande poeta.

Isola Difederigo
A me piacerebbe tanto, come titolo, questo “Del vasto e del vano”, così alla latina, argomentativo, apertamente confidente con due misure, vastità e vanità, che il nostro poeta condivide con l’amato Leopardi. Anche per me Trinci the best!

tristan 51
Ci sarebbe, volendo, involontario fino a un certo punto ma che importa, anche l’eco di un altro poeta tanto amato da Trinci: Carlo Betocchi, autore di “Del meno”. E con la “troppa vita” il “del meno” ci starebbe benissimo.

Daniela Del Monaco
Queste tre poesie di Trinci hanno un impatto potente e disorientante su me lettrice. Sono rapita dai frequenti accostamenti ossimorici e dai giochi antitetici (“santità di pus”, “casto di lussurie”, “depravato d’innocenze”, “consunto di purezza”) e dal tono provocatorio, brutale e, al contempo, rivelatorio di un malessere profondo ed estremo. Un linguaggio poetico nuovo quello di Trinci, sorprendente e affamato di verità.

Andrea Bassani
Il Trinci lo vedi come entità presente ma in realtà è una proiezione che viene dal passato: è l’ologramma di una figura poetica che non c’è più e di cui ho tanta nostalgia. Io lo definisco un caratterista protagonista di quella poesia che spero torni ad essere contemporanea.

tristan 51
I vincoli con le origini e con la fine che chi scrive instaura tornano in questi versi a farsi più stretti, al punto che la raccolta in via di definizione sarà con tutta probabilità una sorta di splendido, distanziato corollario analitico a quanto “Cella” già magnificamente per suo conto, nel 1994 registrava. Lì l’io risaliva all’ante-vita: partecipava allo scontro amoroso tra il Padre e la Madre, si insinuava nella stretta che lo faceva gemere ed imprecare, nascere e morire, aggiungendo febbre a febbre, ansito a ansito, sporcandosi e amando fino in fondo, per poi
ritrovarsi – tra Rimbaud e il Pasolini dell’“Usignolo” – figlio appeso a quella croce, inchiodato. Tutto questo rende del tuttol indilazionabile, credo, la disponibilità in libreria dell’opera prima di Giacomo Trinci. Un editore serio, degno di testi così alti si faccia avanti!

Duccio Mugnai
Mi affascina molto il confronto di se stesso, nonché la dichiarata ispirazione dal Pasolini dell’hobby del sonetto, dal Pasolini che riuscì a dedicare cento poesie a chi voleva e tentava di amare. Qui, in queste poesie inedite, la rima classica è assente, seppur nella ricerca di assonanze e musicalità, nella spinta propulsiva di un volo continuo. Vorrei citare dal Neruda di ieri: “[…] il poeta / cerca di imitare la mosca […]”. E mi ricordo la prima significativa pubblicazione di Trinci, cioè Voci dal sottosuolo, dove l’immagine, irripetibile in prosa, di una mosca morta stecchita, dopo un vano “fraseggiare” con un vetro, mi lasciò sorpreso. Non so quale precisa motivazione lirica o esistenziale vi è dietro questa linea d’orizzonte, e non desidero saperlo, ma tale fotografia asettica di una morte così piccola, eppur così’ inesorabile e comune, questo epitaffio poetico, riflessione profonda e cinica, mi parla di letteratura contemporanea, dell’automa dell’essere umano, ormai specializzato a negare se stesso, e ci vedo la spaventosità del protagonista “borghese piccolo piccolo” di Vincenzo Cerami.

perdirindina
Pistoia, piccola dannunziana città del silenzio, trova in Trinci, ormai da più di una raccolta (mi piace ricordare la recente “Inter nos”), una delle sue voci più alte. Ed è voce instancabile ed indomita che dell’amato Pasolini raccoglie l’invito allo scandalo, al non conformarsi al comodo andamento della corrente. In questo sta anche la sua identificazione con il barbone, in questo sta il suo essere al di là, oltre, come un Cristo che ha già portato la sua croce, come uno Zarathustra che ha già attraversato il fuoco. E qui ritrovo il senso di certi suoi ossimori, tanto che si può essere casti di lussurie o depravati d’innocenze. Proprio Pasolini, un lucidissimo Pasolini, nell’analizzare, nel suo saggio sui Karamazov, i tre fratelli protagonisti del romanzo, riconosceva in Aleksej, apparentemente il più santo dei tre fratelli, l’immacolato, l’asceta, forse il più problematico ed enigmatico fra loro stessi. Lui che più di chiunque altro durante il processo sembra comprendere il lato oscuro del fratello accusato di parricidio, perché “chi non ha mai desiderato di uccidere il proprio padre”. Trinci, in una raggiunta dimensione di disincanto, sembra aver fatto propria la lezione pasoliniana, con una disposizione a rifiutare ogni facile lettura per cogliere ciò che sta al di là di ogni ingannevole apparenza.

Damiano Malabaila
Oggi che tutti vogliono essere poeti (e alla troppa intenzione spesso non corrisponde l’invenzione), Giacomo Trinci, senza strepiti, lo è davvero. Davvero è uno che “sente” più degli altri e la sua rigogliosa forza creativa si trasforma sempre in un dettato personalissimo e inconfondibile. Certo, si può pensare a Leopardi, Pasolini, Rimbaud, Betocchi, Valduga, addirittura Heine (credo che a Heine queste poesie piacerebbero), ma Trinci – poeta coltissimo – riesce a rimanere decisamente Trinci. Strepitoso, poi, e secondo me molto trinciano il titolo “Di vita, troppa”; perché, come diceva Lee Masters, “It takes life to love Life”…

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