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Firenze, 17 agosto 2016 – Ricordando che il 17 agosto 1974 moriva a Roma Aldo Palazzeschi.

La letteratura si profila subito per Aldo Palazzeschi (quell’Aldo Giurlani che già nella scelta di uno pseudonimo assunto al momento del debutto tende a nascondersi e ambiguamente ad esibirsi), come una grande finzione rivelante, come scena delle dislocazioni dell’io in figure e personaggi, come nuova biografia fantastica – di progressivo, liberatorio superamento di quella che lo scrittore avrebbe poi definito, retrospettivamente, «una giovinezza turbata e quasi disperata» – all’insegna di un autobiografismo delle possibilità che intreccia autobiografismo della mimesi e del rispecchiamento e autobiografismo del desiderio: dell’alterità avvertita come potenzialità rimasta tale e invece, in scrittura, assolutizzata, resa protagonistica, viva, in sintonia con la verità impavidamente espressa da uno dei celebri motti di Oscar Wilde: «Chi ha più di una volta vissuto, deve più di una volta morire», e in accordo con quanto sosteneva André Gide – quell’André Gide di cui peraltro è tramandato un giudizio singolarmente lusinghiero su Sorelle Materassi –, quando nel suo La tentative amoureuse, poi raccolto in Le retour de l’enfant prodigue sosteneva: «I nostri libri non saranno infine il racconto fedelissimo di noi stessi, ma piuttosto i nostri inconsolati desideri, l’anelito ad altre vite per sempre vietate, a tutti i gesti impossibili».

La letteratura, la scrittura, l’arte come uno spazio alternativo per maschere dell’impossibile o del creduto tale, per definizioni e incarnazioni di ciò che l’io avrebbe voluto essere e non è stato, per stratagemmi sostitutivi e riparatori di un io profondo cui la vita non ha concesso quella realizzazione di potenzialità nascoste, biograficamente vietate o rese difficili ma esistenzialmente sensibilissime: un teatro immaginario di parole che surroga la vita e insieme la completa, fino, concorrenzialmente, a sostituirla, a prenderne il posto.

Paradossalmente nel libro di versi del debutto poetico palazzeschiano, I cavalli bianchi, del 1905, l’io di chi con le sue parole vorrebbe rivelarsi è grammaticalmente assente, non dice affatto – come sarebbe lecito aspettarsi – di sé, liricamente di sé. Alla soggettività mortificata ed annientata fa invece riscontro il protagonismo in chiave collettiva e impersonale di un altro personaggio: «la gente» (quella gente, diciamo pure, che pone problemi all’io, che, intimidatoria e potente, impone divieti, contrasta il suo libero espletamento espressivo fino a soffocarlo).

Eppure quei testi in cui l’io, sistematicamente vessato e prevaricato, latita ci si rivelano presto, tra inibizione e turbamento di una giovinezza solitaria e «quasi disperata», testi sensibilmente tramati di autobiografismo, o meglio di quella più complessa, occulta «autobiografia del profondo» – secondo una definizione di Luigi Baldacci – disposta a dichiararsi, se non attraverso un io grammaticalmente assunto, attraverso altre risorse della scrittura, specialmente della scrittura poetica: immagini, iterazioni, parole chiave, sonorità, una versificazione che è sostanzialmente una ritmica ossessiva, volta esprimere anch’essa un sostanziale bloccaggio dell’io, una costrizione paragonabile alla circolarità e alla chiusura di immagini ricorrenti, dei movimenti stessi inscenati in quel teatro senza parole dalla gente che va e viene, circolarmente come in un opprimente girone dantesco senza fine.

Gente che guarda, che spia ed inesorabilmente perseguita un io non espressamente dichiarato e reso libero di dichiararsi, impaurito a tal punto, potremmo dire, atterrito, da occultarsi del tutto, da lasciare agli sguardi persecutori di chi lo vorrebbe ininterrottamente scrutare, criticare, condannare, soltanto vaghi indizi della propria presenza, tracce ambigue e misteriose del proprio essere passato di lì, lui braccato, dolorante e in fuga, prima della scomparsa.

In seguito, tuttavia, la scoperta del comico avrebbe risarcito Palazzeschi, ridefinendo a sufficienza per lui gli spazi per sofferenze, inibizioni e conflitti. Come accade esemplarmente nei versi di queste disinibite ed esilaranti Postille: postille all’insegna di una sparizione volontaria comicamente accettata e gustata, da poeta che «vive sepolto» in una bella villa toscana in compagnia di strani, ma assai devoti e solidali servitori.

Marco Marchi

Postille

Il poeta… C. Z.,
stanco della vita mondana,
non sognò più che una mèta:
la vita tranquilla.
E si ritirò
in una sua bellissima villa
in Toscana.
Solo, colla sua servitù,
si rinserrò là dentro
per non uscirne più.

I suoi servitori
vestivano, a festa di dentro,
a lutto di fuori.

A lato del cancello,
al posto del solito cartello
e del solito nome col solito campanello,
vi fece murare, come coi morti s’usa fare,
una lapide bianca, di marmo,
su cui era scritto così:
Qui vive
sepolto
un poeta.
E vi si seppellì.

Ma il giorno seguente
due camerieri
accorron dal loro signore
affannati e stravolti.
– Che c’è?
– Signore!
– Signore!
– Sapete?
– Sapete?
– Che cosa?
– Là fuori, al cancello…
sul marmo ov’è scritto: qui vive,
sapete? Accanto alla parola: poeta
C’è scritto…
– C’è scritto?
– Una brutta parola signore.
– Sentiamo.
– C’è scritto… imbecille.
– Oh!… Dio…
(Sarà forse passato
un mio compagno antico,
qualche collega, qualche vecchio amico)
Restate tranquilli,
non son che… postille…
– E sotto, piccino, piccino,
c’è scritto: cretino.
– (Ormai giunto alla mèta
non voglion risparmiare
neppure l’ultimo verso
al povero poeta)
Restate tranquilli,
non son che postille,
lo scrivon più o meno a tutti i cancelli
di tutte le ville.
– Signore!
– Signore!
– Avanti, sentiamo.
– In grande su in cima,
vicino a: qui vive, c’è scritto: un pazzo,
e dopo la parola: poeta, c’è scritto: del cazzo.
– Postille! Postille!
– E dopo: coglione,
c’hanno scritto col carbone.
Vivo o morto è lo stesso,
caro poeta,
sarai sempre un fesso.
– (E’ l’eco del mondo dove più non vivo,
Sono i vari pareri sul libro che non scrivo).
Restate tranquilli v’ho detto.
– Nell’angolo in lapis violetto:
Quale insperata mèta!
un manicomio sì grande,
per sì piccolo poeta!
– (Postille al frontespizio
del libro che non scrissi,
dell’ultimo poema
che solamente vissi)
– Buffone!
– Ruffiano!
– Maiale!
– Dopo la parola poeta.
– Benone!
(Mi giungono le voci quassù
come se leggessi il giornale
che non leggo più)
– Stupisci o passeggero!
Per un pazzo solo
Un manicomio intero!
– Questa è la tomba
del poeta bomba.
E in lapis copiativo…
– E in lapis copiativo?
– Pederasta passivo.
– Ma bene, benone!
– Dovranno lavare col sangue
gl’insulti, i signori passanti!
– Sapremo appostarci e col nostro pugnale
ficcargliela in gola,
ad ognuno,
la propria parola.
– Pianino, pianino ragazzi,
pianino col sangue!
Tenete la chiave dell’armadio grande,
prendete il bacile d’argento
a putti e ghirlande,
(serviva a nettare le labbra e le dita
dei convitati alla fine dei pranzi
quando il poeta era in vita)
dell’acqua, una spugna,
ed ogni mattina,
nella vostra opera di pulizia
il primo lavoro sia quello:
lavare bene bene la lapide al cancello,
senza sgarrare,
non c’è altro da fare.
– Col sangue
dovranno lavarla i passanti!
– Col sangue!
– Mi sembra che l’acqua
sia un lavacro più spiccio,
col sangue, miei cari,
finireste per fare
un curioso pasticcio.
– Vigliacchi! Sfregiare una tomba!
– Insultare un sepolto!
– Lo sanno lo sanno
che sotto quel marmo c’è un morto che ode,
non spunterebbero il lapis con tanto affanno,
o avrebbero lode;
i morti, di solito, li lodano molto
o li lasciano in pace;
prima della parola: sepolto,
là fuori, c’è scritto: qui vive, non giace.

Già i morti di fronte,
giganteschi santi
dai manti turchini
che gli scendono giù ampi
in morbidi inginocchiamenti,
s’apprestano a cingere l’aureola abituale,
e immobili nei loro inchini
aspettano il passaggio del sole.
Tremulano nell’aria
Gli ultimi gorgheggi degli usignoli.
I rami sporgenti dai muricciuoli
scuotono rosei fiori
sulla via bianca polverosa
della campagna silenziosa.
Due servitori in livrea di strettissimo lutto
aprono un grande cancello.
E con spugna e bacile
lavano bene bene un cartello di marmo
dappertutto.
Guardan dipoi su e giù per il viale
a dritta e a manca
prima di rientrare:
“la lapide è bianca,
signori passanti,
la vostra parola ci manca,
avanti! avanti!

Aldo Palazzeschi

(da Poesie, Vallecchi 1925)

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