VEDI I VIDEO Francesco Manetti legge Matteo Mazzone , … Giovanni Asmundo , … e Letizia Barozzi , Un’altra “romantica spiritata” di Matteo Mazzone letta da Grazia Apisa

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Firenze, 22 agosto 2016 – E’ sullo specifico, connotante tema toscano che il Premio Letterario Castelfiorentino ha impostato fin dagli inizi il suo lavoro di auscultazione, scoperta e valorizzazione di giovani autori. Così, anno dopo anno, giungono a concorrere al Premio testi inediti in versi e in prosa diversissimi, accomunati tuttavia da una costante tematica coniugabile a sua volta secondo innumerevoli, pressoché infinite possibilità, accezioni e incroci. Nella XVII edizione 2016 i testi sono stati numerosissimi (308 per la precisione) e in gran parte interessanti e perfino di grande livello, dando luogo ad un ampio e serrato confronto che per la giuria ha dovuto alla fine formalizzarsi in un risultato: tre premiati sul podio e una larga serie di segnalazioni (anche le opere segnalate si possono leggere nel sito del Premio).

Protagonisti del post di oggi sono i tre giovani autori che nel giugno scorso hanno primeggiato nella gara, a partire dal vincitore assoluto, il bravissimo poeta pistoiese Matteo Mazzone, affiancato sul podio da un altro valido poeta debuttante, Giovanni Asmundo di Venezia Mestre, e da un’altrettanto giovane e promettente scrittrice in prosa, la bresciana Letizia Barozzi. Le motivazioni stilate dalla commissione giudicatrice enuclearono allora caratteristiche e pregi delle opere premiate, e i sintetici referti potranno ora costituire una buona bussola per orientarsi nell’incontro con queste nuove voci dell’espressione letteraria. Le splendide letture di Francesco Manetti proposte in allegato ne valorizzeranno la tenuta letteraria, in termini di originalità e qualità.

I tre testi di Matteo Mazzone sorprendono, innanzitutto, per la forte carica linguistica e la potente vis comica che l’attraversa, e si inseriscono subito, con una loro precisa connotazione, nel panorama della poesia contemporanea. Le “romantiche spiritate” lasciano intravedere infatti, nella loro evidenza di aspro teatro linguistico, una scena al cui centro si installa una sorta di Gadda della poesia, e dove il plurilinguismo diventa gusto della divagazione, digressione, chiosa: tutti oggetti estranei alla dominanza elegiaca, lirica e monolinguistica della poesia italiana e, in generale, all’accademia del “poetico” tout court. L’oralità spiccata della voce connota lo scritto, lo apre, lo percorre da cima a fondo e lo destruttura, smentendolo in modo concentrato e continuo. Trionfa nel giovane Mazzone il linguaggio, e con esso una riconoscibile forma ricca di promesse e già piena di sostanze nuove.

Giovanni Asmundo dedica per suo conto una suite di sette poesie alla Toscana etrusca, cogliendone con estro e singolare originalità gli aspetti mitici e arcaici. Affidandosi ad una lingua alta ed evocativa, i versi procedono secondo movenze salmodianti, interrotte da improvvise increspature e tuffi nell’insondabile. Sensibile all’eterno dialogo tra luce e oscurità, l’invenzione poetica si muove persuasivamente tra simboli corrotti o reticenti, epifanie enigmatiche, elette memorie poetiche ed impeti analogici. A convincere e sorprendere, in questo componimenti, è soprattutto il privato sviluppo delle voci liriche, immerse in una dimensione tellurica e marina, carica di memoria ma in realtà segretamente sottratta al tempo.

Infine, un cammino attraverso la bellezza e la spiritualità della terra toscana e dei suoi tesori artistici scandito in forma di Libro d’Ore. Così si annuncia il pregevole racconto di Letizia Barozzi, Canto toscano, evocando suggestive visioni d’arte come un paesaggio dell’anima seducente e misterioso. La scrittura rivisita con tocco sapiente memorabilia di una terra generosa, scritta e dipinta, di pietra e di carta, riaprendo varchi fra la parola e il silenzio, autocoscienza e sacralità. Tempi e luoghi, ricordi e impressioni, passato e presente s’intrecciano così in una partitura narrativa singolarmente limpida, fluida ed armoniosa, partecipe essa stessa della perenne vicenda dell’arte fra interrogazione e incanto.

Buona lettura e buon ascolto, e auguri a tutti e tre i giovani autori!

Marco Marchi

Matteo Mazzone, Tre romantiche spiritate

romantica spiritata  1

la passeggiata coi figli d’Aronne:
l’è un brulichio continuo di passi tra i passi
transeunti defunti in Piazza di’ Domo
recalcitrante pecorame in vasche via degli Orafi
via di’ Globo tutti in grigio verde d’orbace
vestiti, annichiliti nella loro moltitudine di massa smassa  
incorporea, ragazzata muscolo-ciuffo-gorgonea
che spelluzzicando, sballettando in sculettatine
serotino-crepuscolari, di sedere in sedere,
di pietra in pietra sconnessa,
connessi, internati in internet internettati
sbadati mandrilloni cicisbei crapuloni
raggiungono in nenie di litanie vaghe
la Sala o gli Ortaggi, (cum musi, parate nei paraggi)
movida bambinesca che sorbe il succo
poi sfocia in rutto generazionale
(viva lo sterminator Vesevo, viva lo disastro coevo)

bimbi miei, solerti gingilli umani
non vorrete mica diventare brillanti etmani?

romantica spiritata  2

e la mi metto ad iscenar un dialoghetto
col birbone di Piazza Brunelleschi:
si sa che, maldestri, li fiorentini di Firenze
spiscettano od orinano al poeta in Santa Croce
s’acquetano in sonno sotto i’ loggione
di San Lorenzo: ma tu, sbronzo barbone non terso
dimmi, da uovo a uomo:
pure tu ti senti spaesato
in questo spaese devastato
dai covi degli innumeri numeri:
politici, dirigenti-puberi, agghindati
di buccu-buccole pendulo-perse
belletti e fazzoletti in taschino
capelli in cappelli, sguardi di morto manichino,
tavoloni di lussuria
dove si mesce calici di porto e goduria in frac;
i civili dormono sonni tranquilli
(hai sentito che silenzio c’è in via Capponi
tra le sore ed i soroni)
quei poveri garruli imbecilli che
sommettono la ragione al talento
che indipendenti dipendono
dai loro poveri quid.

Tu mi dirai: nel tunnel dei bufero-buffoni,
quell’acido sorso di melanconia
ora tosto ci porti via.

romantica spiritata  3

ni’ CTO de fiorentini
succedan i qui pro quo più birichini:
sbarellando in barella
sbalzi con balzi pressori
pompa intra-cranicamente
spinge e geme e batte botte in cervella
e poi mi sento pulsare come
pulsa una pulsar
(in questa bambagia careggiana di Careggi)
sadomaso cum gaudium
ancora la morfina e sciami sciamani
di volatilini, carina liquida serpeggia e consuma
la processione funebre al letto
laddove il paziente interdetto non sfiata:
piscia e sfiata in padella così
come tirano i punti in fila indiana
in collo-cervice riuniti: di notte e di giorno
immagino la Crusca a Castello
immagino il piazzale verdarello di lecci, cipressi e pini
le colline dorate dal sole,
i pensieri impegnati con la mole delle parole
nel cerca e ricerca nella bibliografia biocruscata:
ma ora son qui, prigioniero di un male maggiore
ora nel mondo ospedaliero dei tuc e dei tic
prenoto una tac: la mente pastiscia
il pastisciabile condito con rabbia e sopore
ma pian piano decade la sfida del corpo.

Pervenga subito un bel coito morto.

Matteo Mazzone

Giovanni Asmundo, Viaggio metafisico nella Toscana archeologica

“La notte, unica notte perenne ricopre i tuoi occhi infiniti!
Ma li raccoglie Giunone e li colloca sopra le penne del suo pavone,
a cui empie la coda di gemme stellanti.”
(Ovidio, Metamorfosi, trad. di F. Bernini)

I. Cosa

L’aria era nostalgia di cipressi
o perduto fuoco, perduti banchetti
sonante vanità dei nostri flauti e cembali.
L’alba non svelava nulla dei segni
scriveva con le dita alfabeti appesi ai muri.
I vasi antichi polvere e cocci
le rondini non predicevano l’oltre.
Soprattutto non riuscivamo ad afferrare
il senso di quei sorrisi di pietra.

II. Tarquinia

Trovandosi dinanzi il vasto abisso
tentammo di abitare il manto notturno
giacché il giorno feriva i nostri occhi.
E l’immagine era dipinta e così il cielo
d’intonaco bianco.
E giacquero la caccia e la pesca
giacquero al tacere dei rumori.
Eppure avevamo guardato
dalla sporgenza con tale attenzione
per assicurarci un pallido meriggio
ma quando rialzammo le ciglia
si era fatto oscuro.

III. Vulci

Godemmo della vostra luce, albe effimere.
Così la terracotta fu scelta, sposa lieve
guance d’argilla e trecce d’acqua quieta.
Ma la gioia del vivere era tanta.
Il sarcofago ci rese unica figura
le labbra rimasero increspate sui volti.

IV. Populonia

Ineluttabilità di stelle austere
divine, su colline cosparse di conci
morbide fino all’orlo di spume
del mare, mantate da lingue di mirto.
Petrigne, assistono con distacco
alle vite degli uomini scolpiti
danzanti al profumo dei pini.

V. Timignano

Sul colle una carcassa di città cetacea
e due strade di sassi riaffioranti
da una vastità fatta di tumuli e arsura
senza aggiunte, solo massa, compattezza
di zolle marroni, di oro bianco
unica pelle levigata e bicolore
fianchi modellati fino all’orizzonte.
Né aspra né prospera, immutata
a ridosso di sè, fuori dai tempi.

VI. Fluviale

Tra le lunghe corna dei fiumi
indorate dal sole benigno
scivoleremo sulla superficie
i pensieri a vele triangolari
gonfi fluttueremo fino all’ultima torre
fino all’ultimo approdo di pali fangosi
fino all’ansa ove si annida il porto sepolto
aleggeremo tra le voci custodite
scintillanti su onde all’occhio insensi
eppure paghi del nostro percepire.

VII. Tirrenica

Nel grembo dei concavi fasciami
riluceva appena l’ancora d’argento.
Le notti seguivano notti
barbare alle brume del mare turrito.
Per casa ormai soltanto l’occhio spento
come pesce affogato sulla prora.
Sbarcati tra i resti dei fiumi
zoppicando ci sembrava di lasciare
orme sulla sabbia delle dune infrante.
Fuggendo dagli arbusti, tornavamo
ad affondare i piedi in una torbida laguna
protetta dai cordoni delle spiagge.
Oltre, la schiuma muta del mare mangiava
le nostre polene perdute.
Le stelle erano tutte spostate.

Giovanni Asmundo

Letizia Barozzi, Canto toscano

Così voglio cantarti, così voglio raccontarti.
Come luci e ombre nell’oscurità della pietra e come lo splendore mattutino nei giardini conchiusi, voglio raccontare i miei passi attraverso la tua terra, intessere i ricordi di anni fino a farne un unico arazzo e scandire il cammino così tracciato nella mia mente come una preghiera.

Dal mattutino al tempo di laudi.

Sotto la piccola città sorge ancora una costruzione antica. Chi si trova a passare in queste zone si avvia senza indugi verso l’ampio trapezio che introduce alla grande cattedrale, in quella piazza voluta da Pio II a sua immagine. Pochi lasciano le mura amiche e la sicura compagnia per allontanarsi, anche di poco, e percorrere una via diversa: muovendo i propri passi giù per il sentiero chiamato via delle Fonti, ci si ritrova di fronte a quella che a prima vista pare poco più che un’abitazione, dal tetto basso e spiovente, non fosse per la grande torre che pare l’avanzo di un antico maniero. Alle prime luci dell’alba, l’arenaria scura della facciata è percorsa da ombre che muovono le ghiere del semplice portale, animando le sirene bicaudate e i serpenti marini dell’architrave, che bisbigliano strane parole all’orecchio degli uomini. Si scorge appena la cariatide colonna della bifora, quasi etrusca, che resta dritta con le mani sui fianchi, segno di una congiunzione insondabile tra epoca ed epoca in quella terra. Pare che sorrida.
Nell’aula oscura, le colonne e l’antico fonte battesimale faticano a staccarsi dall’oscurità. Discendendo le ripide scale che sembrano penetrare nelle viscere della terra, ci si ritrova avvolti nel buio caldo e umido della cripta ed è difficile domare il profondo timore che nasce nell’animo, quello di non poter più liberarsi da quel carcere ipogeo. Ma poi il primo bagliore del giorno penetra dall’unica monofora della cripta, strappa l’oscurità e lacera il buio dell’anima come un annuncio. Le cicale riprendono a cantare.

Laudi.

I raggi del nuovo giorno penetrano come lame lucenti nell’aula della chiesa, tagliando l’oscurità come una stoffa. Il rosone diviene un disco d’oro che, a fissarlo, ferisce la vista.  I santi si stringono attorno al trono della Vergine, nell’eterna sacralità del loro dialogo.
Brilla di quell’oro la pagina liscia del salterio e la luce, danzando sul tetragramma, canta sommessamente “Dixit insipiens in corde suo…”, toccando i bottoni preziosi, i vermigli girali, le foglie di lapislazzulo germogliate dal capolettera. Le dita bianche del vecchio quasi si confondono nel candido contorno della manica, mentre accarezzano la bella cornice in fregio del badalone, non osando toccare la pergamena.
Poco lontano, dalle bianche colonne del cortile, nella splendida villa, lo sguardo si perde in una scatola prospettica di mirabile armonia: un portico a quattro lati, sul lato di fondo tre candidi archi a tutto sesto, due colonne di marmo, una porta d’accesso spalancata su un giardino pensile. Nel giardino, un quadrilatero disegnato da siepi di bosso. Al centro del quadrilatero, una fontana e, nella fontana, una freschissima rosa sospesa sul cristallo dell’acqua. Sul fondo della fontana, il riverbero delle increspature rischiara il marmo al sorgere del sole.

Terza.

È scoppiato il caldo e, con esso, il frinire delle cicale. La veste candida del vecchio ricorda l’abito degli agostiniani che, fino a poco tempo fa, abitavano le mura di Sant’Antimo. Venendo dalle strade tortuose, la sua costruzione appare come un bagliore candido in una conca circondata da alberi
Dalla strada che da Siena va a Volterra ho visto il paesaggio mutare molte volte nel corso dell’anno: nella prima parte dell’autunno si alternava il bruno alla tonalità rossastra delle crete, in estate la terra era bionda, quasi bianca sotto il sole del primo pomeriggio. Poi, d’un tratto, da dietro la morbida curva di un promontorio, appariva la città, ritagliata sull’oro come la figura di una santa sul fondo prezioso di una tavola. Le sue mura erano parte della pietra che le sosteneva. Questa città ha il cuore in dura roccia e ha la corolla d’oro.

Sesta.

Non è mai sterile, l’oscurità, è come un ventre fecondato, tenerissimo rifugio.
Un tempo si imboccava la strada che da Anghiari scendeva a Monterchi per andare in visita alla Madonna del Parto. Non era altro che calce, acqua e pigmento su un muro innalzato da mani umane e nel silenzio del meriggio estivo, da una crepa di quel muro spuntava un grillo minuscolo, proprio sotto il piede dell’angelo.
Poi, d’un tratto, incrociavi i suoi occhi ed ecco, il mistero ti invadeva, a ondate e le lacrime premevano dietro le palpebre, scivolavano sulle ciglia. Non respingere il dolore, parevano dire quegli occhi, quando viene devi essere dolce come questa mano che accarezza il ventre proprio sotto il segno della veste, dove la rotondità del corpo tende la stoffa azzurra. E’ una forza creatrice.
Tornando, storditi, verso Borgo San Sepolcro, pareva che tutte le pietre delle sue abitazioni intonassero “Puer natus est nobis” non con la soavità di una monodia gregoriana ma con la forza di una lauda in volgare.  E sembravano annunciare una morte, non una nascita.

Nona.

Perché tutte le Madonne col Bambino sono così meste, così meditative?
Dall’esterno, il giro d’abside della Pieve di Arezzo era una grande corona adorna, di quelle corone imperiali che si ponevano in capo alle Croci di Nicodemo o si appendevano nelle chiese in segno di omaggio. La Madonna, nell’oscurità di quel tempio, non era vestita di rosso e ammantata di blu: il suo capo era velato da una ricca stoffa a fiorami geometrici, bordata di vermiglio e la sua tunica dall’alto soggolo ripeteva le geometrie cosmatesche del manto. Non era stato un uomo di chiesa a vestirla, ma un ricco mercante di panni che l’aveva omaggiata con la sua merce più rara.
I santi, al suo fianco, indicavano il muto dialogo tra lei e il Figlio, sulle cose presenti e quelle che ancora dovevano accadere e che Maria sembrava voler allontanare.
Sancte Deus, intonavano i contrafforti massicci.
Sancte fortis, rispondevano le colonne dal fusto più sottile, intonando a distanza di quarte. Riprendevano insieme, in semplice polifonia, i capitelli, le finestre del clarestorio e dell’abside: Sancte Misericors Salvator amarae morti ne tradas nos.
Si pensa che in quel periodo buio e per molti secoli non fosse riservata alcuna tenerezza ai più piccoli. Molte volte mi sono chiesta come si potesse restare impassibili di fronte ad un simile esempio di amore incondizionato: la Vergine davanti ai miei occhi era davvero una madre, e come tale a lei si doveva guardare perché il suo splendore risiedeva nella sua umiltà.
Così l’aveva ritratta Andrea Pisano alla base del Campanile che affianca Santa Maria del Fiore, mentre giocava con il Figlio, facendogli dolcemente il solletico con due dita sotto la gola, mentre dall’alto il rintocco delle campane annunciava che il Giudizio era vicino.

Vespro.

Nuper rosarum flores.
Nella grande Santa Maria del Fiore ogni pietra concertava con tante e così varie voci canore che sembrava che ad ogni contrafforte fosse posta una figura angelica dalle labbra schiuse. Le semplici armonie romaniche della pieve mariana di Arezzo erano mutate nelle complesse strutture dell’imponente macchina architettonica. Un tempo, in Firenze, la dedicazione solenne di una chiesa veniva salutata intonando l’introitus “Terribilis est locus iste”.
Per questo Guillaume Dufay, nel giorno della dedicazione di Santa Fiora, offrì una composizione a quattro voci che si innalzavano sul basamento di quell’introitus, come un’architettura costruita su solide fondamenta, e dispose le diverse parti del mottetto secondo precise relazioni matematiche. Quattro, il numero della Vergine Maria, sette, il numero del Tempio di Salomone. Il triplum e il mottetto intonano un testo latino iniziando ciascuna sezione da soli per la durata di ventotto brevi, prima di unirsi ai due tenori con la melodia liturgica dell’introito per altre ventotto brevi. Ventotto, il numero che si ottiene moltiplicando il quattro e il sette. Così la musica rifletteva il perfetto ordine cosmico, le leggi che governavano l’universo e l’universo stesso, ruotando su se stesso sette volte, quante erano le sue sfere, produceva una musica. Sotto la cupola, elevata in altezza, erta sopra i cieli, fatta senza alcun aiuto di ponti o travi di legname ma solo per ingegno umano, ti sembra di vedere, sospesa, immobile ma in eterno, impercettibile, movimento, l’intera volta celeste.

Compieta.

Tramonto. I cipressi che a Bolgheri alti e schietti…
Quante volte ho cercato di imparare quei versi? Quante volte, tornando nella mia città, mi sono cimentata nell’impresa, nel tentativo di trattenere così un lembo di quel colore di vespro intrappolato tra cipresso e cipresso, la prima ombra notturna tra i rami degli ulivi sulle colline, l’ultimo raggio di sole che attraversa i vetri opachi di San Guido rendendoli di alabastro? Alla fine, ho sempre desistito, per poi pentirmene ad ogni mio ritorno. Mi ci imbatto a tratti, in quei versi, nel ripercorrere le vie del borgo, come delle pietre in cui la mia memoria si trovi ad inciampare.
Fresca è la sera e a te noto il cammino. Sulle mura di Bolgheri illuminata a volte si scorge un brillio di maiolica invetriata, incastonata tra i mattoni. Il borgo, a sera, si accende di molte luci, le botteghe e i negozi gremiti espongono la merce più varia: grandi ceste di ogni genere di pasta, pane profumato dalla crosta bruna, olio, conserve, sacchetti di lavanda per lenzuola, vasellame rustico, grandi piatti di ceramica con profili di donna incorniciati da putti e grifoni affrontati, dipinti a mano.
Le persone si accalcano attorno alle canestre ricolme, si sporgono le une sulle altre per guardarle, mischiando le durezze del tedesco alla favella toscana ch’è sì sciocca.
E’ un momento di gioia profana, umanissima, affondare il cucchiaio di legno in quella zuppa densa e desiderata, mantenuta calda nel tegame di terracotta bruna, pascersi di quel pane ammorbidito dal brodo, ma mai abbastanza, toccare la sua crosta dura con la punta della posata. Godere di una soddisfazione singolare, nel vedere i turisti seduti ai tavoli vicini accontentarsi di portate più ricche ma di cui l’unico elemento toscano era il piatto candido che le conteneva.
Tramonta il giorno dietro le colline e del casolare lontano, tra gli ulivi, non resta che una luce tremula. A notte canteranno i rusignoli. Non è passato molto tempo, poco più di cent’anni: i miei occhi potrebbero essere i suoi, quella luce la fiamma di una lucerna appesa davanti ad una finestra. Chi vive questi luoghi rivive le vite di molti altri che li hanno vissuti e che ora non vivono ma ancora muovono i loro passi per queste terre, e noi con loro. Sette paia di scarpe ho consumate di tutto ferro per te ritrovare e ancora mi tocca ripartire, il sole è affondato tra le onde, ormai, ma domani toccherà di nuovo le cime dei pini marittimi, sospeso sul pacato e azzurro mare.

Letizia Barozzi

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