Firenze, 31 agosto 2016  Come c’era da aspettarsi è Cesare Pavese con la sua nota quanta bella Verrà la morte e avrà i tuoi occhi ad aggiudicarsi il gradino più alto del podio agostano. Anche i vostri commenti sono stati per l’occasione particolarmente acuti e significativi oltre che numerosi, e dovendo esemplificare ricorderemo qui quelli di Giacomo Trinci, Laura Diafani e Matteo Mazzone. Rispettivamente: “Il novenario, in questa poesia di Pavese, silenzia il suo bel canto e, prosciugato della sua facile musicalità, inventa il passo lento, meditato di una quasi prosa, di un racconto mormorato a un se stesso leopardianamente affrontato in corpore vili. Le due strofe siglano vita e destino in un abbraccio definitivo e la ‘poesia della tradizione’ si decanta in asciutta, severa e dolente marcia funebre”; “Rileggevo ora l’Introduzione di Davide Lajolo alla sua biografia di Pavese, appunto ‘Il “vizio assurdo”‘, Storia di Cesare Pavese’ (ll Saggiatore 1960), che trovai tempo fa su una bancarella. Lajolo riferisce parole private di una conversazione con Pavese che vanno in direzione di quella ossimorica e latente unità nella diacronia che Marco Marchi evidenziava: ‘Non sono per questo un uomo complesso, come ha scritto chi ha parlato dei miei libri. è complessa la vigna, dove l’impasto concimi-sementi, acqua e sole, dà l’uva migliore, ma non quella dove, troppo spesso, alla stagione del raccolto le viti sono inaridite e senza grappoli. Io sono fatto di tante parti che non si fondono; in letteratura l’aggettivo adatto è eclettico. è propiro l’aggettivo che odio di più nella vita e nei libri, ma il mio odio non basta a espellerlo'”; “La devastazione è la sensazione principale che dilania l’animo di Pavese: una consapevolezza, sempre più crescente e sempre  più dolorosa, di una ‘vita non vita’. Dapprima, dunque, una meditazione che si fa accecante parola scritta, sudata macchia di sangue, fino alla risolutezza cruda ed acerba: il nuovo obbiettivo è il raggiungimento del ‘gorgo del nulla’, infelicemente cantato anche dall’ultimo d’Annunzio, in cui l’uomo si riduce ad essere ‘il cane del suo nulla’. Ma per Pavese l’uomo non sminuisce alla maniera dannunziana: trasumana insofferente, s’allieva di ogni dolore vissuto o da vivere, si fa abbracciare dal caldo ed amichevole soffio di una morte che si presenta come una domestica ed inscindibile compagnia. Rimane solo desolazione, estrema indifferenza per il proprio io, sicura voglia di morire”. Ma per concludere faremo nostre le parole di tristan 51: “Crescere vuol dire veder morire’. Un grande oltre ogni moda, oltre ogni temperie del visibile, oltre ogni giudizio: un classico”.

L’argento va poi al promettentissimo poeta debuttante Matteo Mazzone e agli altri due giovani autori che, ricostituendo la terna di un altro podio e di un’altra gara, si sono imposti alla XVII edizione del Premio Letterario Castelfiorentino, vale a dire Scrivere la Toscana. Mazzone, Asmundo e Barozzi Al terzo posto, infine, un sacco di  “alla pari”… Un vero e proprio drappello di poeti all’inseguimento composto da Antonia Pozzi, Mario Luzi, Giovanni Raboni, Federico García Lorca, Daria Menicanti, Mark Strand, Aldo Palazzeschi e Dino Campana! Poeti il cui gradimento è stato in parallelo confermato dalle copiosissime visualizzazioni registrate dal loro post e da altri post di approfondimento pubblicati nella pagina fb dello stesso Premio Letterario Castelfiorentino che abbiamo appena citato.

Buona lettura e rilettura, e buon fine estate 2016! Domani inizia settembre e le “Notizie di poesia” regolarmente continuano con un nuovo testo di un nuovo autore!

Marco Marchi

La morte e gli occhi. Cesare Pavese

VEDI I VIDEO “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” letta da Vittorio Gassman , Profilo di Cesare Pavese , Da “Il mestiere di vivere” , Pavese secondo Milly, “Gente che non capisce”

Firenze, 27 agosto 2016 – Della maturità, una categoria psicologica, Cesare Pavese aveva fatto un mito, un onnicomprensivo traguardo da raggiungere; a tre parole tratte dal King Lear di Shakespeare aveva affidato quell’obbiettivo, il significato persistente di un esempio: «Ripeness is all», la maturità è tutto.

Fu questo il mito che costò all’uomo Pavese l’esperienza amara del confino e finanche il gesto incontrovertibile e risolutivo del suicidio (a Torino, il 27 agosto 1950). Ma fu questo il mito che alimentò una produzione letteraria di prim’ordine sistematicamente impostata all’insegna della coerenza, della necessità dialettica più ferma ed implacabile: della crescita.

«Ho la certezza – scrisse Pavese quattro anni prima di morire – di una fondamentale e duratura di tutto quanto ho scritto o scriverò». E Pavese, fin dalla raccolta di versi che segnò il suo debutto nell’agone letterario (Lavorare stanca, edita nel 1936 a Firenze da «Solaria»), coltivò quella «fondamentale e duratura unità» che consisteva in una ricerca del vero da effettuarsi tramite parole.

I temi essenziali attraverso i quali verrà svolgendosi il suo esercizio sono già, in Lavorare stanca, perfettamente enucleati: non rassicuranti certezze, ma opposizioni, conflitti; città e campagna, agire ed essere, maturità e infanzia. In Pavese conteranno più di quanto si sia stati finora disposti a credere gli episodi precoci di una formazione in cerca di maturità che, con singolare tempismo, propongono una fenomenologia divaricata, conflittuale, già in grado di costituire gli ingredienti-base di quella opposizione costante che verrà progressivamente definendosi come la poetica dell’autore, del narratore e del poeta. Alludo in particolare, semplificando, ai modelli pedagogici forniti sullo sfondo delle Langhe da una simbolica madre ad un orfano (un figlio già obbligato alle separazioni) e al magistero attivo, culturalmente e storicamente coniugato, di un prestigioso professore torinese, Augusto Monti.

Così Santo Stefano Belbo e Torino si emancipano presto in una scissa geografia dell’anima: dell’innocenza e della coscienza, del primordiale e dell’evoluto, della natura e della storia. Ache se il montaliano ingresso nel «mondo degli adulti» nelle liriche di Lavorare stanca si profila per il poeta come una volontarstica conquista dell’uomo, una poesia che vuol narrare apre strade da percorrere allo scrittore. Poesia-racconto, appunto, secondo una celebre dichiarazione dell’autore esordiente, rivolto senza remore all’esempio whitmaniano, Nasce la poesia di Pavese, e nasce, confortata dal riferimento culturale particolarmente ampio e di continuo incrementato, la sua narrativa: da Il carcerePaesi tuoiLa bella estateLa spiaggia, gli esiti maturi del dopopguerra: Il compagnoLa casa in collinaIl diavolo sulle colline, il bellissimo Tra donne soleLa luna e i falò, senza dimenticare le delucidazioni artistiche svolte in chiave mitico-antropologica e psicoanalitica dai Dialoghi con Leucò.

L’esercizio scrittorio di Pavese si lasciò in effetti pilotare solo da se stesso, riducendo a diacronia di soluzioni espressive (talvolta semplicemente giustapposte e così fatte reagire) insoddisfazioni e contraddizioni, bisogno partecipativo e sfiducia nelle collaborazioni al farsi della storia, autenticità dolorosa della solitudine e urgenza di appoggi, oscurità e chiarezza.

L’arte operò i suoi risarcimenti, consentendo risultati individui e resistenti. «Sulle colline il tempo non passa», si legge nei modi lapidari di una sentenza nel romanzo La luna e i falò. Pavese ritrova in questi termini la sua completezza, l’incalco meno imperfetto delle sue ambizioni, della propria immagine. «La passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la  verità demonica di piante, acque, rocce e paesi –  si legge del resto nel diario di Pavese alla data del 9 gennaio 1950 –  è un segno di timidezza, di fuga davanti ai doveri e agli impegni del mondo umano». Ma è proprio questo spietato rifuto dell’illusione –  di ogni illusione –  a sostanziare come una realtà già conseguita l’auspicio di cui l’epigrafe alla Luna e i falò si faceva portavoce: «Ripeness is all».

Alla maturità di un’opera che senza infingimenti e tergiversazioni aveva riconosciuto che «crescere vuol dire morire», Pavese era giunto attraverso la scrittura.

Marco Marchi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese

(da Verrà la norte e avrà i tuoi occhi, 1951)

I VOSTRI COMMENTI

m
La grandezza tragica di King Lear mi sembra un’ottima chiave di lettura per l’universo pavesiano. E’ davvero necessario tornare a leggere e rileggere Pavese, liberandosi da inveterati schemi interpretativi e concettuali: solo così riusciremo a restituire a questo geniale autore un posto di assoluto primo piano nel nostro Novecento.

tristan51
“Crescere vuol dire veder morire”. Un grande oltre ogni moda, oltre ogni temperie del visibile, oltre ogni giudizio: un classico.

Giulia Bagnoli
Bellissima! “Sarà come smettere un vizio”: il “vizio assurdo” di Pavese è sia la vocazione al suicidio che vivere, tuttavia il “vizio assurdo” è anche quel mestiere dello scrittore che coincide con quello di vivere. Il gesto di scrivere diventa privo di senso, soltanto un gesto appunto, equiparabile a quello di togliersi la vita, nella consapevolezza che anche scrivere non serve a niente, se non a difendersi dalle offese della vita (“la letteratura è l’unica arma contro le offese della vita”, scriveva). Ho sempre immaginato Pavese come un uomo “senza pelle” che sente tutto e ad un certo punto non può più difendersi.

Duccio Mugnai
L’esperienza devastante del mancato controllo della vita si riverbera nell’impossibilità di riuscire ad amare la donna che si desidera. Così gli occhi, peraltro i primi a decomporsi in natura e ultimi particolari fisici ad essere dimenticati, arrivano solitari e freddi come una condanna, come una denuncia all’incapacità di essere maturi. “Ripeness” è impossibile. E la vita si uccide in tutto ciò che negli occhi di una donna appare come impotenza, irraggiungibilità, impossibilità di difendersi da ogni male, che sia malattia, destino avverso, persecuzioni, droga, solitudine, ecc., cioè la complessità perversa e crudele dell’esistere.

Matteo Mazzone
La devastazione è la sensazione principale che dilania l’animo di Pavese: una consapevolezza, sempre più crescente e sempre  più dolorosa, di una “vita non vita”. Dapprima, dunque, una meditazione che si fa accecante parola scritta, sudata macchia di sangue, fino alla risolutezza cruda ed acerba: il nuovo obbiettivo è il raggiungimento del “gorgo del nulla”, infelicemente cantato anche dall’ultimo d’Annunzio, in cui l’uomo si riduce ad essere “il cane del suo nulla”. Ma per Pavese l’uomo non sminuisce alla maniera dannunziana: trasumana insofferente, s’allieva di ogni dolore vissuto o da vivere, si fa abbracciare dal caldo ed amichevole soffio di una morte che si presenta come una domestica ed inscindibile compagnia. Rimane solo desolazione, estrema indifferenza per il proprio io, sicura voglia di morire.

Pietro Paolo Tarasco
Leggo questa toccante e triste poesia intrisa di incommensurabile e struggente bellezza, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi – questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera…” Penso alla tragedia di questi giorni! Noi…tutti, ogni attimo uniti tra terra e cielo.

Laura Diafani
Rileggevo ora l’Introduzione di Davide Lajolo alla sua biografia di Pavese, appunto ‘Il “vizio assurdo”‘, Storia di Cesare Pavese’ (ll Saggiatore 1960), che trovai tempo fa su una bancarella. Lajolo riferisce parole private di una conversazione con Pavese che vanno in direzione di quella ossimorica e latente unità nella diacronia che Marco Marchi evidenziava: “Non sono per questo un uomo complesso, come ha scritto chi ha parlato dei miei libri. è complessa la vigna, dove l’impasto concimi-sementi, acqua e sole, dà l’uva migliore, ma non quella dove, troppo spesso, alla stagione del raccolto le viti sono inaridite e senza grappoli. Io sono fatto di tante parti che non si fondono; in letteratura l’aggettivo adatto è eclettico. è propiro l’aggettivo che odio di più nella vita e nei libri, ma il mio odio non basta a espellerlo” (p.10).

Elisabetta Biondi della Sdriscia
E’ straordinario come il testamento poetico di uno scrittore come Cesare Pavese si collochi nel rispetto apparente di una tradizione letteraria verso la quale si era mostrato innovatore con i suoi lunghi versi dal sapore di prosa. Detto questo, però, dobbiamo osservare che in questa poesia bellissima il topos letterario degli occhi dell’amata, caro alla poesia stilnovista, viene qui innestato su quello romantico di amore e morte e sinesteticamente collegato al tema tutto novecentesco dell’incomunicabilità. Due strofe di novenari che pur nella loro diversa lunghezza si corrispondono simmetricamente, riprendendo i motivi del silenzio, dello specchio, della caduta delle illusioni e della speranza in una prospettiva di progressivo avvicinamento alla morte, che ci richiama inesorabilmente fino ad avvolgerci nelle spire di un gorgo senza scampo che ci priverà definitivamente della possibilità di comunicare.

Maria Antonietta Rauti
Costance Dowling: questo il nome dell’attrice americana da cui il Poeta ha subito una delusione amorosa a cui pare legato il testo poetico che sembra rievocare l’amore inteso in maniera petrarchesca e leopardiana. Gli occhi, la parola, il silenzio, la speranza, la vita e poi il nulla, la morte quale compagna di vita sono incontri importanti tra lo scandire dei versi di Pavese… E poi come non soffermarsi sulla magia dello specchio che si ripete come immagine simmetrica, ma non statica, capace di deformare l’azione facendo”riemergere un viso morto” e capace di far parlare un “labbro chiuso”?

Maria Antonietta Rauti
Com’è bello leggere così tanti commenti!!!

Giacomo Trinci
Il novenario, in questa poesia di Pavese, silenzia il suo bel canto e, prosciugato della sua facile musicalità, inventa il passo lento, meditato di una quasi prosa, di un racconto mormorato a un se stesso leopardianamente affrontato in corpore vili. Le due strofe siglano vita e destino in un abbraccio definitivo e la “poesia della tradizione” si decanta in asciutta, severa e dolente marcia funebre.

Lorenzo Dini
Poesia testamento splendida da leggere e rileggere. “Scenderemo nel gorgo muti”: verso terribile che getta un’omba di oscuro presagio sul poco successivo gesto, incontrovertibile e risoluto, del suicidio. Muto il gorgo di ascendenza dantesca, come muta, impenetrabile ed originaria la condizione di solitudine di Pavese.

perdirindina
Un implacabile sguardo sulla realtà quello di Pavese, che rilegge in chiave novecentesca l’eterno binomio amore-morte e che non riesce mai a separare il senso di quest’ultima dal quotidiano esistere, anche quando la stessa esistenza dovrebbe essere sublimata dalla forza del sentimento. La donna, la speranza, anche la poesia sono inutili appigli per chi può solo precipitare nel silenzioso gorgo del nulla.

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