28 dicembre 2016 – E’ il poeta del “Canti Orfici” Dino Campana a salire sul gradino più alto del podio di dicembre con il post Il sorriso della Chimera. Campana. Al secondo e al terzo posto due piazzamenti (il terzo alla pari) che nel loro complesso indicano un quadro di preferenze interessante e non limitatamente riservato alla poesia italiana: un pronunciamente, per così dire, ottimamente bilanciato. Ecco così il vincitore dell’argento Konstantinos Kavafis (Kavafis e le visioni del piacere), seguito a ruota dalla coppia Antonia Pozzi-Rainer Maria Rilke (Vicenda d’acque. Antonia Pozzi e L’autunno cosmico di Rainer Maria Rilke).

Tra i commenti campaniani, davvero molti e molto significativi, ne scegliamo tre: quelli di Aretusa Obliviosa, Matteo Mazzone e Giacomo Trinci (quest’ultimo, dobbiamo dirlo, un supercommento ad alto quoziente critico che fa onore al blog!). Rispettivamente: “L’orfismo di Campana non ha eguali nel nostro panorama letterario. C’è qualcosa di atavico e di primordiale nell’incedere cantilenante della poesia campaniana, che risale alle sorgenti dell’oralità per poi abbandonarsi ad una mitologia che, pur attingendo a piene mani ad un decadentismo estenuato, ad un acceso cromatismo dal tratto espressionistico, ad una dimensione onirica a metà strada fra tragedia classica e moderna psicologia, rimane in ultima analisi non databile e fuori da ogni circoscritto spazio temporale” (Aretusa Obliviosa); “La componente linguistica è il cuore del componimento: il tema poetico/poietico si traduce nella dolce ridondanza musicale di espressioni analogiche, di criptiche descrizioni intersoggettive; la lirica si rende, dunque, come punctum barthiano, ovvero gamma di possibili interpretazioni, chiavi prospettiche di letture sempre nuove. Tale complicità interpretativa deriva dalla natura stessa del componimento, quella di visionario-prodotto di un visionario. L’attacco ‘Non so’ (poi riproposto quasi alla fine del testo) nega, di per sé, il campo di uno scibile sicuro e veritiero e si ricollega alla imprevedibilità dell’apparizione. Non c’è molto da sondare e da comprendere, se non che il tutto si presenta come una timida registrazione di un incontro non-incontro, laddove l’emotività del poeta si scontra coll’ineffabile rappresentazione di un’estasi tutta personale, tutta vissuta e tutta misterica” (Matteo Mazzone); “Iterazioni, chiasmi, anafore, presentano lo straordinario e smagliante spartito di questa musica risucchiante, che fa percepire in modo forte al lettore che si fa ascoltatore quella ‘minorità’ che è una categoria deleuziana, in accezione cromatica, e musicalmente minore. Il lessico dannunziano, con annessa l’internazionale simbolica, si disintegra e sfarina nell’iterazione sonnambolica, nelle anafore da ipnosi acustica. La poesia risucchia se stessa in un’autocombustione assoluta che lascia il corpo del poeta da solo, zoppicante e nomadico zingaro della vita. La voce che canta in questa grande evocazione di materia che spossessa, è quella di misteriose cantilene che ci raggiungono dal profondo di noi stessi, che ci sfanno. Non ci appartengono ed emergono in ironici bamboleggiamenti, in quieta follia. Grande musica di uno spossesamento corporeo e mentale” (Giacomo Trinci).

Auguri di buon anno a tutti: per un 2017 sereno e il più possibile ricco di soddisfazioni, desideri esauditi e buone notizie (tra cui le nostre, quelle giornaliere “di poesia” che ci rendono amici e tanto nel nostro vivere quotidiano ci aiutano).

A domani con il post dei post del 2016 che sta per finire!

Marco Marchi

Il sorriso della Chimera. Campana

VEDI I VIDEO “La Chimera” letta da Vittorio Gassman , … e da Carmelo Bene“La Chimera” secondo Aion Teater , Scene da “Un viaggio chiamato amore” di Michele Placido (2002)

Firenze, 6 dicembre 2016 – Campana, prima che il conato vocativo che sigla la sua celebre La Chimera si manifesti e si faccia via via più esplicito e cogente, confessa una sua incapacità: “Non so se…”. Ma è proprio da questa incapacità dichiarata e subito chiamata in campo, da questa condizione di instabilità e insicurezza immediatamente esibita e partecipata al lettore fattasi incipit sonoro, primo accordo della partitura lirica, che la modernità della sua poesia si emancipa.

L’invocazione di Campana per dirsi compiutamente si fa visione, visività pronta già a sua volta, investendo e confondendo piani e pertinenze del reale, visionarietà. Il naturalismo e l’impressionismo nella poesia dei Canti orfici deflagrano, il simbolismo biologico e nel contempo storiograficamente coniugato di Campana si fa cangiante, si drammatizza, straripa e trabocca dappertutto, mentre l’espressionismo è pronto ad ogni passo a trionfare e divampare, incupendo con la sua scura fiamma ogni perlaceo scenario della suggestione, ogni parvenza del reale abbellita da nuances, impreziosita da luminosi aloni di superficie esistenzialmente fallaci, solo seduttivi ed ingannevolmente avvincenti o consolatori.

La poesia dei Canti Orfici è poesia culturalizzata, è sempre bene precisarlo, e anche negli storiografici termini attraverso i quali stabilisce la propria incidenza di messaggio si dimostra poesia impossibilitata a rivendicare comodi contrassegni identitari, facili abitabilità e domiciliazioni: «lineamenti fissi», potremmo dire, «stabili possessi» citando un celebre «osso breve» che pochi anni dopo avrebbe scritto Eugenio Montale, rivolgendosi non alla Chimera ma tout court alla propria vita.

Quel Montale cantore della negazione della parola che «squadri da ogni lato» un’umana «anima informe»; quel Montale in attesa del miracolo conoscitivo della poesia che trova in un avverbio dell’incertezza – come in Campana e come in un celebre sonetto di Foscolo, Alla sera – l’attacco di una altro suo «osso breve» come Forse un mattino andando…; quel Montale che in veste di critico, lettore dotato di poesia altrui, tra vita e cultura, psicologia e linguaggio, definirà mirabilmente la poesia di Dino Campana nei termini di una «poesia in fuga», cogliendo in una sorta di sempre inappagato, sintattico e musicale dinamismo l’alto grado di instabilità da cui la stessa richiesta di poesia avanzata dal poeta e da lui strenuamente perseguita muove, ad essa sostanzialmente ritornando ma in espressionistici e visionari termini d’arte realizzata, per imprevisti straripamenti ed esondazioni di senso.

E’ un regime dell’incertezza, del probabilismo che niente risparmia, che tutto investe; e la veggenza si fa erranza, richiamo accondisceso a quegli oscuri luoghi dell’«altrove» e della «seconda nascita» di cui un altro grande poeta del primo Novecento, l’autore delle Elegie duinesi, Rainer Maria Rilke, ci parla. Analogamente, coerentemente, la poesia dei Canti orfici sarà poesia della notte, e Campana sarà poeta per antonomasia «notturno», espressamente disposto secondo queste modalità e questi connotati di afferenza orfica a certificarsi internamente a un testo come La Chimera.

Campana scrive d’altronde, prosimetricamente aperto, le stupende pagine della Notte, come si fa evocativo, impaurito e impavido cantore del Canto della tenebra, riconfermando attraverso questa vocazionale e programmaticamente rafforzata frequentazione del buio e della profondità la sua appartenenza a forme e prospettive del moderno: una modernità di inizi secolo in sintonia con le parallele, sbaraglianti scoperte della scienza culminate nell’opera di Sigmund Freud.

Marco Marchi

La Chimera

Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

Dino Campana

(da Canti Orfici, 1914)

I VOSTRI COMMENTI

Daniela Del Monaco
Campana usa come simbolo della Chimera l’immagine di una fanciulla ineffabile, irraggiungibile, sorella della Gioconda leonardesca che, com’è noto, rappresenta l’enigma per eccellenza. Il suo sguardo moderno e problematico, infatti, non svela ma nasconde e il suo sorriso da contemplare è fatto di “lontananze ignote”. Questa visione sembra identificarsi con la Poesia stessa alla quale il poeta aspira e che assume moltissime forme, proprio come la chimera mitologica. Sia la donna, sia la poesia hanno dunque una matrice comune: il “dolce mistero”. La sola cosa importante per l’autore è continuare disperatamente a cercare, a invocare e, quasi, evocare la Poesia, che altro non è se non un sogno vano, un’utopia.

Duccio Mugnai
Come è risaputo, tratto caratteristico del genio è “sapere” prima di aver conosciuto. Bisogna chiedersi quanto questo fatto coincida con l’unicità di Campana. Si è parlato spesso di stile ed immaginario “rimbaudiano”, genuinamente scevro da dominazioni e parvenze di filtri culturali troppo evidenti. Eppure è “Chimera” come incubo di sembianze femminili, fascinose, cangianti e proteiformi; gia presente nel gioco edonistico, estetizzante e superomistico dannunziano, potrebbe preludere anche la terribilità esistenziale pavesiana di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. E’ sublimità ineffabile e orfica dei versi di Campana, senza dimenticare che il senso più autentico e profondo del poetare è la fuggevolezza e l’indefinibilità.

m
Come ha scritto un instancabile lettore di Campana, i Canti orfici sono “il libro scritto nel mondo, nel circuito della vita planetaria” e ancora: “un ponte, un’offerta di soluzione all’impasse che la poesia moderna e il pensiero moderno hanno dovuto subire irretendosi in se stessi. Questo, di Campana, che sembrava una specie di sogno retrospettivo invece ha, secondo me, una carica anticipatrice”.

Aretusa Obliviosa
L’orfismo di Campana non ha eguali nel nostro panorama letterario. C’è qualcosa di atavico e di primordiale nell’incedere cantilenante della poesia campaniana, che risale alle sorgenti dell’oralità per poi abbandonarsi ad una mitologia che, pur attingendo a piene mani ad un decadentismo estenuato, ad un acceso cromatismo dal tratto espressionistico, ad una dimensione onirica a metà strada fra tragedia classica e moderna psicologia, rimane in ultima analisi non databile e fuori da ogni circoscritto spazio temporale.

Giulia Bagnoli
La Chimera: capolavoro assoluto del visionario poeta; una personificazione della Poesia, misteriosa e affascinante come una donna, spaventosa come un mostro. La Poesia a cui il poeta aspira è tanto preziosa quanto inafferabile e lontana, ed egli non può che reclinare la testa in atteggiamento servile e continuare disperatamente ad evocarla. Campana cercando la Poesia ne ha scritta una perfetta.

Isola Difederigo
“La poesia del nostro tempo – chi scrive è ancora l’instancabile lettore di Campana – vive di un terribile dilemma: o tutto o nulla. Per avere acceso questo dilemma in modo così folgorante, alle origini della nuova poesia italiana sta Dino Campana”.

Chiara Scidone
Trovo molto interessante il fatto che Campana si autodefinisca “poeta notturno”e penso che questa definizione spicchi in particolar modo in questa poesia (es. “sorriso di un volto notturno”). La chimera è misteriosa, ambigua e rappresenta il simbolo del mistero dell’esistenza umana. Affascinante come essa sia evocata, come se il poeta usasse un incantesimo.

Giacomo Trinci
Iterazioni, chiasmi, anafore, presentano lo straordinario e smagliante spartito di questa musica risucchiante, che fa percepire in modo forte al lettore che si fa ascoltatore quella ‘minorità’ che è una categoria deleuziana, in accezione cromatica, e musicalmente minore. Il lessico dannunziano, con annessa l’internazionale simbolica, si disintegra e sfarina nell’iterazione sonnambolica, nelle anafore da ipnosi acustica. La poesia risucchia se stessa in un’autocombustione assoluta che lascia il corpo del poeta da solo, zoppicante e nomadico zingaro della vita. La voce che canta in questa grande evocazione di materia che spossessa, è quella di misteriose cantilene che ci raggiungono dal profondo di noi stessi, che ci sfanno.Non ci appartengono ed emergono in ironici bamboleggiamenti, in quieta follia. Grande musica di uno spossesamento corporeo e mentale.

Matteo Mazzone
La componente linguistica è il cuore del componimento: il tema poetico/poietico si traduce nella dolce ridondanza musicale di espressioni analogiche, di criptiche descrizioni intersoggettive; la lirica si rende, dunque, come punctum barthiano, ovvero gamma di possibili interpretazioni, chiavi prospettiche di letture sempre nuove. Tale complicità interpretativa deriva dalla natura stessa del componimento, quella di visionario-prodotto di un visionario.
L’attacco “Non so” (poi riproposto quasi alla fine del testo) nega, di per sé, il campo di uno scibile sicuro e veritiero e si ricollega alla imprevedibilità dell’apparizione. Non c’è molto da sondare e da comprendere, se non che il tutto si presenta come una timida registrazione di un incontro non-incontro, laddove l’emotività del poeta si scontra coll’ineffabile rappresentazione di un’estasi tutta personale, tutta vissuta e tutta misterica.

Sabina C.
Chimera: donna o poesia? E’ la spassionata ricerca di entrambe che muove il poeta e che trova compiuta espressione nell’inebriante e misteriosa atmosfera abitata da chimere evanescenti, impalpabili, inafferrabili, abbaglianti, invocate ed evocate nel dispiegarsi di sensazioni visive e sonore che catturano in un crescendo di dolcezza e musicalità .

Laura Diafani
Per una storia del “non so” in poesia…

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Viaggio disperato verso un possibile significato della vita e ricerca spasmodica di una parola poetica assoluta: i versi notturni di Campana – metafora di un’esistenza brancolante alla ricerca di un senso che è pura Chimera – ci avvolgono con la loro estenuante musicalità, tra iterazioni e assonanze, in un’atemporalità priva di riferimenti spaziali, in una circolarità labirintica senza via d’uscita, che non sia momentanea o illusoria come il sorriso ossimorico della figura mitologica evocata, come i meandri di una psiche alterata. La copiosità lessicale della poesia dannunziana qui non afferma, ma nega certezze e la poesia di Ermione, il canto dell’estate, si fa canto delle tenebre, poesia di una Chimera.

Lorenzo Dini
Nella “Chimera” il senso concreto della fisicità progressivamente si dissolve. Pur partendo da dati solidi, essi sono subito abbandonati e inizia per Campana il “viaggio”. Il dissolvimento dell’oggetto si attua sul piano stilistico attraverso suggestioni musicali, coloristiche e talvolta olfattive (è il caso dell’ “aroma di alloro” in “Giardino autunnale”). Ed è così che la parola riacquista nei “Canti orfici” la sua verginità, perdendo il carico di significati culturali e tornando a convertirsi in ebbra musica. La parola in Campana ha sempre questo carattere di “vertiginosa eloquenza musicale”, come a suo tempo scrisse acutamente Sergio Solmi.

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