Pubblicato il 30 dicembre 2016

‘Notizie di poesia’. Il post dei post 2016

30 dicembre 2016 – Il post dell’anno! Quest’anno, cari amici, il post dei post… si fa in tre! A pari merito per numero di commenti si aggiudicano il gradino più alto del 2016 il post di gennaio, quello di agosto e quello, recentissimo, di dicembre, e cioè, rigorosamente alla pari,  Buon compleanno, Federigo Tozzi!, Anniversario Pavese. […]

di Marco Marchi

30 dicembre 2016 – Il post dell’anno! Quest’anno, cari amici, il post dei post… si fa in tre!

A pari merito per numero di commenti si aggiudicano il gradino più alto del 2016 il post di gennaio, quello di agosto e quello, recentissimo, di dicembre, e cioè, rigorosamente alla pari,  Buon compleanno, Federigo Tozzi!Anniversario Pavese. La morte e gli occhi e Il sorriso della Chimera. Campana. Così avete deciso e questo, conti alla mano, è il risultato! Seguono nella classifica i due post pasoliniani di marzo e di novembre (Pasolini e l’Italia  e Il glicine sull’abisso. Pasolini) e quello di luglio dedicato a Giacomo Trinci (Il Trinci che verrà; complimenti Giacomo, restando tra parentesi, sei tra grandi e grandissimi!!!).

Buona lettura o rilettura, e a domani con i vostri migliori commenti del 2016 e con gli auguri per il 2017!

Marco Marchi

Buon compleanno, Federigo Tozzi!

VEDI I VIDEO La vita e le opere: “Tozzi, la scrittura crudele” , Scene da “Con gli occhi chiusi” di Francesca Archibugi (1994) , Passeggiata tozziana

Firenze, 2 gennaio 2016 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della nascita di Federigo Tozzi (Siena, 1 gennaio 1883), e ricordando due libri tozziani pubblicati di recente dalla casa editrice Le Lettere, ambedue a mia cura: un’antologia di novelle e una raccolta di saggi, rispettivamente Venti novelle e Federigo Tozzi. Ipotesi e documenti. Ancora a mia cura e ancora per i tipi de Le Lettere, il romanzo Il podere.

Il podere comincia laddove Ricordi di un impiegato – soprattutto nella loro primissima redazione, in cui chi è ammalato e presumibilmente morirà è il padre del protagonista e non una fidanzata di nome Attilia – finiscono: «Nel millenovecento, Remigio Selmi aveva vent’anni; ed era aiuto applicato alla stazione di Campiglia. Da parecchio tempo stava in discordia con il padre e non sapeva che al suo piede bucato da una bulletta delle scarpe era ormai venuta anche la cancrena. […] / Ma una sera ricevette una cartolina dal chirurgo che lo curava; nella quale era scritto che la malattia non dava più a sperare. / La fece leggere al capostazione; ed ebbe il permesso di partire subito, con il diretto che era per passare».

Attenzione! Quel biografico «piede bucato» foriero di morte aggetta già su cristologici scenari da Golgota, anima ed inconscio tornano per chi scrive, per via di cultura, a convergere, a saldarsi. Alla puntualità di una prosecuzione meramente cronologica fa in realtà riscontro il senza-tempo di una storia segreta, protratta da sempre, radicata nel «profondo»: un rapporto esistezialmente fondante e che ne determina tutti gli altri; un tema privilegiato, categorialmente assunto ed assolutizzato, di cui tuttavia l’intera opera di Tozzi si impegna a cogliere le più sensibili articolazioni interne, rigorosamente registrando – assieme ad impossibilità e immutabilità – opposizioni e contraddizioni, simultaneismi e sincretismi. Dominano le imprevedibilità soggioganti dei «misteriosi atti nostri», di quegli atti legati a insindacabili pulsioni inconsce che altrove Tozzi, sostenuto da un’ampia cultura psicologica pervenuta perfino a informazioni di tipo freudiano, definisce «movimenti determinati da cause ignote» (La conscienza, in Barche capovolte).

«Perché fare i figliuoli crocifissi?», aveva scritto Tozzi a Emma, allora sua fidanzata, in una delle bellissime lettere di Novale (20 ottobre 1907). Già in Con gli occhi chiusi quella onnicomprensiva forma di pietas leopardianamente emancipatasi dalla rappresentazione di supplizi risulta oltremodo efficiente, tanto da annettere al suo interno, senza preclusioni e resistenze, la figura stessa di Domenico (Dominicus, l’uomo di Dio) quale appare sul finire del romanzo: un despota desautorato, irriconoscibile, patetico, più che mai imprendibile e misterioso, costretto – lui detentore del comando, il Dio che tutto può e tutto vede per un Pietro mai diventato adulto ma che in quel momento crede di poterlo diventare – a tacere, a doversi distrarre. «Seduto su la sedia che gli serviva da più di vent’anni – è uno dei bellissimi paragrafi conclusivi del romanzo –, lo seguiva con lo sguardo tenendo le mani in tasca dei calzoni e appoggiando al muro il capo già calvo. Ma non diceva niente, procurando di distrarsi con i servi e con qualche cliente che andava a salutarlo».

Una sorta di scomparsa anticipata del terribile padrone della luce che Domenico fu, una sorta di morte pregressa, che è, insieme, l’addio vendicativo e commosso, illusorio e forse del tutto presunto, di Pietro all’infanzia lasciata alle spalle. Ghìsola non sarà in grado di svolgere alcuna funzione di riscatto, l’ingresso di Pietro nel mondo degli adulti si rivelerà di lì a poco (traumaticamente, con il ritrovamento della ragazza a Firenze, incinta di un altro uomo e avviata alla prostituzione) un’illusione: «Ma le nostre vicende intime – come si legge nell’ermetico e poco noto poema in prosa giovanile Paolo, risalente al pari dell’atto unico L’eredità all’indomani della morte del padre – sono inevitabili. La conscienza è la resistenza che opponiamo loro».

Il cerchio perfetto che Tozzi e l’enigmatico padrone della luce hanno voluto si infrange e subito si ridisegna: il dialogo che continua – muto, notturno, del tutto interiore e implacabilmente necessario – si riconferma quello tra padre e figlio: «Spenta la candela – è ancora Pietro che pensa di poter abbandonare la sua vecchia vita –, si voltava dalla parte del muro e dormiva. / Domenico, verso la mezzanotte, attraversava la camera, con in mano la lucerna di ottone. E allora Pietro si destava e gli veniva voglia d’alzare il capo. Ma l’altra porta si richiudeva; ed egli rimaneva con quello scontento di quando è interrotta una disposizione d’animo».

È la prima e l’ultima notte di Pietro Rosi, «con gli occhi chiusi», ma con la riconfermata consapevolezza – come ancora in Paolo si notava – che «V’è un gran segreto dentro di noi. E ci affacciamo in vano su l’abisso. Le tenebre prendono i nostri occhi». Da qui – dimentichiamoci pure tutto il resto – Tozzi ricomincia a narrare, con Remigio Selmi al cospetto di un sorprendente, davvero estremo camaleontismo del padre, oppure al cospetto della verità: al capezzale di un padre che morendo si fa Gesù, un sofferente e assetato Cristo in croce, un figlio di un altro padre.

Marco Marchi

Da “Il podere”

Arrivò alla Casuccia la notte: tre miglia da Siena, fuor di Porta Romana; e, trovato l’uscio aperto, entrò nella camera del padre senza che prima nessuno lo vedesse. 
Giacomo era desto e appoggiato a quattro guanciali; mentre due delle assalariate, Gegia e Dinda, gli sostenevano le braccia lungo la coperta, attente a mettergliele in un altro modo quando non poteva stare più nella stessa positura. Sopra il canterano, una lucernina di ottone; con tutti e quattro i beccucci accesi. 
Remigio salì in ginocchio sul letto. Ma Giacomo, che aveva la testa ciondoloni sul petto e gli occhi chiusi, non se ne accorse né meno. Allora, gli chiese: 
«Non mi riconosci?» 
Dinda disse sottovoce: 
«Lo lasci stare, padroncino! Soffre troppo e non le può rispondere.» 
«Mi risponderà, spero.» 
«Ha fatto male ad entrare senza avvertire.» 
Ma Remigio non badò a quel rimprovero; e disse, sebbene sapesse che non gli credevano: 
«Vorrei che mi riconoscesse.» 
Giacomo alzò, a poco a poco, faticosamente, il volto; e guardò il figlio ma non se ne fece caso: le sue labbra si erano affloscite e screpolate, deformando la bocca; gli occhi non erano più neri; ma, con le sclerotiche gialle e segose, le pupille parevano vizze. Le mani, che le due donne  avevano lasciato, appoggiate dalla parte del dorso e aperte, cercavano di chiudersi senza riuscirci. 
Remigio, perché non lo brontolasse di essergli andato così vicino, gli chiese un’altra volta, pur non avendone più voglia, per quell’indifferenza che, a rivederlo, gli era tornata: 
«Non mi riconosci?» 
Il malato, come se avesse voluto fargli capire che non gliene importava nulla, rispose: 
«Non ti devo riconoscere? Non sei Remigio?» 
E ricominciò subito a gridare. Allora, le due donne lo voltarono di fianco, strascinandolo in proda. 
«Quanto soffro! Così non posso stare! Alzate le coperte!» 
In quel mentre entrò Luigia, la sua seconda moglie: prima, si era fermata ad ascoltare il figliastro; e, senza salutarlo, ficcò le mani sotto le lenzuola per tenerle alzate. 
«Mettetemi le gambe fuori del letto!» 
«Ti farà freddo.» 
«Non importa: obbeditemi.» 
Allora, Gegia e Dinda gli cavarono le gambe fuori del letto, con i due piedi gonfi e fasciati 
che avevano un esasperante e triste odore d’iodoformio. Quell’odore toccò l’animo di Remigio. Luigia esclamò: «Poveretto! Tu, Remigio, non hai visto le sue gambe sfasciate!»
Gegia fece un gesto di orrore; Dinda si asciugò gli occhi. Allora, Remigio appoggiò la testa ai ferri del letto e stette zitto; mentre quel che facevano dinanzi a lui gli pareva di vederlo da tanto tempo. 
Giacomo era abbastanza ricco. Nato da un fattore, che gli aveva lasciato circa ventimila lire, era riuscito a triplicarle. Mortagli la moglie, madre di Remigio, prese con sé una ragazza di campagna facendola passare per serva. Poi, per mettere in pace i pettegolezzi, sposò Luigia, che allora era una zitella piuttosto matura: doveva ereditare un poderetto ed era stata la sarta della prima moglie. Prese anche, perché gli avrebbe fatto comodo, la figlia d’una sua nipote: aveva, allora, dodici anni e si chiamava Ilda. 
La sera stessa del matrimonio, Luigia si raccomandò a Remigio di volerle bene e di dirle tutta la verità delle chiacchiere che si facevano; e il figliastro le confermò i sospetti su Giulia. Ella pianse e si fece promettere da Giacomo che l’avrebbe mandata via; ma, invece, dopo pochi mesi, Giulia prese sempre di più il sopravvento; e Giacomo si divise di letto dalla moglie. 
Ma come poteva piacergli quella ragazza? Magra e gialla, quasi rifinita; con i denti guasti e lunghi; un’aria stupida e gli occhi del colore delle frutta marce. E, a venti anni, già vecchia e logorata. 
Erano più di sette anni che Remigio la sopportava; ma, sempre di più, la sua avversione cresceva; e, d’altra parte, l’odio di Giulia faceva altrettanto; perciò quasi tutti i giorni, Giacomo e Remigio questionavano. Alla fine, il figlio dovette andarsene; e, dopo aver patita anche la fame, era riescito ad avere quel piccolo impiego. 
Tali cose, con la sonnolenza e la stanchezza, gli ritornavano a memoria, rapidamente; mentre pareva che il moribondo non lo vedesse né meno. Allora, si scostò dal letto; e si mise a sedere nell’ombra che faceva una scatola vuota accanto alla lucernina. 
Una grande tristezza lo invase, sentendo confusamente quanta ambiguità gli era attorno; e come, tra qualche giorno soltanto, egli si sarebbe trovato a contrasti violenti e insoliti. 
Infatti, Giacomo aveva promesso a Giulia di lasciarle tutta la parte del patrimonio che la legge avrebbe consentito di togliere al figlio. 
La ragazza, quand’egli senza rimedio peggiorò della gamba, portò via, aiutata dalla zia, quanto le fu possibile: lenzuola che non erano state adoprate mai, strumenti agricoli, il letto dove avrebbe dovuto dormire Remigio, le posate, i gioielli della prima moglie, i vestiti; e vendé perfino tre botti piene. 
Luigia, che s’avvedeva soltanto in parte di queste cose senza avere mai il coraggio di verificare i suoi sospetti, anche per paura del testamento, seguitava a non dirne parola, obbedendo anzi a Giulia; specie quando il suo dolore sincero le fece perdere la testa. 
Remigio, sentendosi straziare, e vergognandosi di non saper far niente, si alzò; riuscendo abbastanza ad essere calmo, perché voleva comportarsi come se tra lui e suo padre non fosse accaduto mai niente. E, non avendo incontrato Giulia, ne provò quasi piacere; quantunque indovinasse che ella stessa non aveva voluto farsi vedere. 
Egli aveva gli occhi di un castagno chiarissimo e limpido, che non somigliava a nessun altro, quasi sbiadito; qualche volta, pareva che tremassero e si accendessero come quelli dei conigli. I baffi, meno biondi dei capelli, d’un colore bruciato, erano attaccati con le punte alle guance; il mento un poco tondo e forato nel mezzo. Il suo viso, quasi sempre rassegnato, era ora doventato febbrile. 
Non stava più a capo basso, e gli sussultavano i muscoli della mandibola. Si riavvicinò al capezzale, e disse al padre: «Tornerò domattina.» 
Gegia rispose, in modo molto significativo, a cui egli non fece caso: 
«Lo assistiamo noi.» 
Giacomo, guardatolo appena, gli disse, come se non ce lo volesse: 
«Addio!» 
Remigio, allora, rientrò in città, e dormì ad un albergo.

Federigo Tozzi 

(da Il podere)

I VOSTRI COMMENTI

m
Qualche auspicio per il 2016: che l’attenzione a Tozzi, davvero uno dei massimi scrittori del Novecento, continui ad aumentare in Italia, ma anche all’estero; che si riconosca la moderna, imprescindibile grandezza della sua negatività e l’acutezza del suo sguardo; che sempre più persone si rendano conto di come leggere Tozzi equivalga, per dirla con Luigi Baldacci, a confrontarsi instancabilmente con «il mostro che c’è in noi».

tristan51
Federigo Tozzi è un autore “difficile”, senz’altro al di sotto del suo valore presso il grande pubblico, soprattutto perché è un grande pessimista, novecentescamente debitore della lezione di Leopardi. Scrittore senza consolazioni, Tozzi invita, come Svevo e come Pirandello, all’attraversamento e all’interrogazione del “non senso” della nostra esistenza. Tuttavia, a differenza dei suoi congrui e straordinari compagni di strada, Tozzi rifiuta qualsiasi instaurabile complicità fra autore e lettore. Amaro come Svevo e ineccepibile come Pirandello, Tozzi non ci fa mai sentire “intelligenti”, ma si limita a mostrarci come in realtà stanno (come in realtà inesplicabilmente, tragicamente stanno) le cose della vita. E questo piace poco

Perdinidirindina
Nell’incipit del “Podere” e nei due protagonisti, padre e figlio, c’è tutto il dramma di Tozzi. Un figlio desideroso di essere riconosciuto tale, poiché solo dal padre può essere legittimata la propria identità. In gioco c’è un’eredità che sarebbe limitativo ridurre alla “roba” verghiana, ma che acquisisce in questo caso il valore simbolico di un’investitura, un riconoscimento appunto. Eredità alla quale Federigo-Remigio anela per uscire dal cono d’ombra in cui adesso è confinato.

Daniela Del Monaco
In Tozzi, a differenza di Svevo, il motivo religioso e l’ottica sacrificante sono molto forti. La storia di Remigio Selmi del “Podere” è, infatti, quella di un povero Cristo che, consapevole, va verso la sua morte, proprio come Cristo si consegna a coloro che lo uccidono. Il crocifisso per Tozzi non è prospettiva di redenzione, anzi, l’uomo rimane “inchiodato” alle proprie domande e ai propri perché. Remigio-Tozzi somiglia a Cristo solo nel momento umano della sofferenza, dato che per lo scrittore il Dio è quello vetero-testamentale, malevolo, terribile e invidioso dell’uomo. Un Dio che non salva e non resuscita.

framo
Il punto di vista di chi si consuma “all’ombra di una scatola vuota” come unica possibilità di mettere a tacere l’ambivalenza dei propri moti interiori (eccesso di rabbia repressa e riemersa nel ricordo, insensibilità indotta da anni di paterna indifferenza, autenticiità di slancio – condensata in quel “vorrei che mi riconoscesse”, pronunciato una volta salito in ginocchio sul letto, con atto più o meno inconsapevolmente implorante e penitente). E’ il punto di vista che il figlio sembra costringersi ad assumere nel tentativo di conservare un equilibrio almeno apparente, perché sul “suo viso, quasi sempre rassegnato, (…) ora doventato febbrile” non si imprimano i tratti della follia (il dolore sincero, come già accaduto alla matrigna, fa perdere la testa) o dell’ipocrisia che gli preme dentro, e che vede e sente attorno, prima e dopo l’ennesimo, estremo rifiuto, con il rischio di perdere la limpidezza di uno sguardo – “quasi sbiadito”- “che non somigliava a nessun altro”. Testo durissimo e ostico da cogliere nel profondo dei suoi molteplici, non immediati risvolti. Grazie.

pietro paolo tarasco
Più di vent’anni fa, non mi fu difficile inabissarmi nella poetica di Federigo Tozzi quando mi cimentai per illustrare uno dei suoi rari racconti “Le cicale” e che l’autore dedicava a Glauco, suo figlio. Fin da subito restai affascinato dalla sua sublime poetica e da quel mondo così reale e naturale che ancora oggi è ben impresso in me. La lettura di quel testo mi condusse immediatamente nei ricordi della mia infanzia quando ascoltavo anch’io le garrule cicale. “Tu pensi alle cicale, balocchi vivi dell’estate” scrive Tozzi e, ancora, “Fra te e loro ci sarà sempre una distanza che ti pare grande come il cielo che va da olivo ad olivo” e “Cantano: ma ascolti di più, involontariamente, i battiti del tuo cuore” ed infine “Ed, ascoltando le cicale, vorrei non morire mai”.

Duccio Mugnai
Su invito del professor Marchi sono contento di partecipare nuovamente a questo blog. Tozzi! Mi fa pensare agli anni universitari, alla passione sempre avuta per questo autore, ma ancor più, ad una sempre più definita e personale incapacità di fare a meno della grande letteratura. Tolstoj, Dostoevskij, Gogol, Turgenev, personalità della letteratura russa, che avvolgono i lettori nei loro grandi romanzi, tratteggiati di neve e città in fiamme, come anche di sacralità della natura e di complessità psicologica in perenne equilibrio tra colpa ed innocenza. Ed è grande letteratura perché affronta le grandi tematiche dell’umanità, come l’odio e l’amore, l’incanto della vita ed il disincanto della quotidianità volgare e violenta. E la prosa di Tozzi è tutto questo ed anche, nonché soprattutto, una ricerca spasmodica, angosciante e, comunque, dostoevskiana, dell’indefinibile, quanto terribilmente banale e quotidiana origine del male. “Un peccato originale” che scorre nelle vene e che avvelena la vita, concatenandosi caso per caso.

Elisabetta Biondi della Scriscia
La realtà che Tozzi rappresenta nelle sue opere è una realtà totalmente tragica, che si configura come un insieme di momenti irrelati e di dettagli sconnessi, senza traccia di possibili visioni salvifiche. I suoi personaggi sono identità frantumate, bloccate nel loro processo di maturazione da un conflitto irrisolto con il padre che li condanna a essere anaffettivi e inetti e drammaticamente consapevoli di ciò. Di Remigio, il protagonista de “Il podere”, Tozzi scrive: “Tutta la sua vita sembrava chiusa dentro un sacco, da cui non c’era modo di metter fuori la testa”. Questa condizione è senza via d’uscita e Remigio, come gli altri protagonisti delle opere di Tozzi, appare mosso da pulsioni inconsce incontrollabili e imprevedibili che l’autore registra con una scrittura franta e dissociata capace di esprimere anche a livello sintattico il senso della disgregazione. Il rapporto tra gli eventi non è di causa-effetto, bensì basato sull’intuizione, perciò non viene privilegiato nessun momento della strutturazione narrativa e tutti risultano così sullo stesso piano; l’uso particolare che lo scrittore fa della punteggiatura provoca, inoltre, una frantumazione del periodo e della realtà in “laceranti schegge crudamente giustapposte” (Contini). Del tutto particolare, arcaicizzante a fini espressivi, è infatti l’uso che Tozzi fa della punteggiatura e, in special modo, del punto e virgola, che egli colloca quasi sempre davanti a proposizioni coordinate o subordinate, sfiorando l’infrazione sintattica, con il risultato di ottenere la frammentazione del periodo e la promozione di elementi secondari a primari con una conseguente intensa crescita dell’emotività. Concludo ricordando il giudizio di Mario Luzi, che, parlando di Tozzi, significativamente disse: ”Se si pensa che ha scritto in pochi anni, lasciandoci tre, quattro capolavori, c’è da chiedersi chi abbia fatto altrettanto. Nessun altro!”.

Giulia Bagnoli
È il triste specchio del mondo dominato dall’odio e dalla violenza, senza che l’uomo possa capire, farsi una ragione. Non possiamo far altro che resistere.

Yumiko Nakajima
E’ bellissima la citta’ di Siena, dove ci sono piena dello spirito di Tozzi. Leggendo le scene di Siena nelle opere di Tozzi mi sento come se io stessi passeggiando a Siena; la Torre, la Piazza del Campo, i viali serpeggianti dai quali si vedono della casa uno all’altra e all’improvviso e’ aperta la vista e si vedono il panorama della citta’, la discesa e la salita e il suono della campana, ecc. Nelle opere di Tozzi, oltre alla descrizione della citta’ di Siena, sempre presente la figura del padre, che ha il potere e piena della capacita’ anche di togliere la luce dal figlio, che rimane sempre nel buio. Ma, nel podere, e’ molto misterioso, all’inizio del racconto, anche il grande diventa il figlio morente che ci allude il Cristo crocifisso prima che la luce (il padre) si e’ spenta improvvisamente.

Marco Capecchi
La morte del padre come epifania: la grandezza di uno scrittore risiede nella capacità di proporre nuovi temi ad ogni (ri)lettura. Tozzi appartiene alla schiera dei grandi scrittori.

Matteo Mazzone
Tozzi è il più grande narratore del primo Novecento: senza se e senza ma. Il rinnovamento del romanzo italiano sta proprio dietro la sua opera di costruzione sistematica di uno scritto propulsivo: uno spartito assieme vociano ed espressionistico che mescola, alla poetica del frammento autobiografico, quella allucinata visionarietà di sapore campaniano che lo porta a strutturare e a disseminare le sue opere di immagini forti, agghiaccianti, terribili e temibili: il finale de “Il podere” testimonia la lucida inquietante tragicità di un uomo, il protagonista Remigio, colpito da una morte più che esemplare: di tutte le morti possibili, è proprio quella decapitazione con l’accetta dello stesso Berto ad essergli fatale. Una morte tanto stupida quanto in grado di lasciare il lettore ad occhi sgarrati, rapito in un incubo surreale, da mettere in relazione intratestualmente (ed intertestualmente) colle maggiori opere tozziane. Tozzi va letto d’estate, al mare, sotto il sole: si stempera meglio così il suo essere tragico-distruttivo.

Silvia Tozzi
In anni passati, il nome di Tozzi ha avuto momenti di attenzione nelle rassegne culturali, mentre oggi si leggono le sue pagine più per scelta personale, che per suggerimenti dall’alto. Non c’è in Italia un clima favorevole alla sua ricezione. Ma stranamente, per esempio in Russia, c’è chi ha cominciato a giudicare qualche suo libro come “capolavoro di modernismo europeo” (Michail Viesel nel supplemento de La Repubblica “Russia Beyond the Headlines”, 17 settembre 2015). Alla traduttrice Ekaterina Stepantsova si deve l’uscita, per la prima volta in Russia, di alcune novelle e di Con gli Occhi Chiusi, e la sua collega Oksana Mushtanova ha tradotto Tre Croci. Magari, chi ha l’orecchio educato a Dostoevskij può essere più sensibile all’ascolto di Tozzi?

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Anniversario Pavese. La morte e gli occhi

VEDI I VIDEO “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” letta da Vittorio Gassman , Profilo di Cesare Pavese , Da “Il mestiere di vivere” , Pavese secondo Milly

Firenze, 27 agosto 2016 – Della maturità, una categoria psicologica, Cesare Pavese aveva fatto un mito, un onnicomprensivo traguardo da raggiungere; a tre parole tratte dal King Lear di Shakespeare aveva affidato quell’obbiettivo, il significato persistente di un esempio: «Ripeness is all», la maturità è tutto.

Fu questo il mito che costò all’uomo Pavese l’esperienza amara del confino e finanche il gesto incontrovertibile e risolutivo del suicidio (a Torino, il 27 agosto 1950). Ma fu questo il mito che alimentò una produzione letteraria di prim’ordine sistematicamente impostata all’insegna della coerenza, della necessità dialettica più ferma ed implacabile: della crescita.

«Ho la certezza – scrisse Pavese quattro anni prima di morire – di una fondamentale e duratura di tutto quanto ho scritto o scriverò». E Pavese, fin dalla raccolta di versi che segnò il suo debutto nell’agone letterario (Lavorare stanca, edita nel 1936 a Firenze da «Solaria»), coltivò quella «fondamentale e duratura unità» che consisteva in una ricerca del vero da effettuarsi tramite parole.

I temi essenziali attraverso i quali verrà svolgendosi il suo esercizio sono già, in Lavorare stanca, perfettamente enucleati: non rassicuranti certezze, ma opposizioni, conflitti; città e campagna, agire ed essere, maturità e infanzia. In Pavese conteranno più di quanto si sia stati finora disposti a credere gli episodi precoci di una formazione in cerca di maturità che, con singolare tempismo, propongono una fenomenologia divaricata, conflittuale, già in grado di costituire gli ingredienti-base di quella opposizione costante che verrà progressivamente definendosi come la poetica dell’autore, del narratore e del poeta. Alludo in particolare, semplificando, ai modelli pedagogici forniti sullo sfondo delle Langhe da una simbolica madre ad un orfano (un figlio già obbligato alle separazioni) e al magistero attivo, culturalmente e storicamente coniugato, di un prestigioso professore torinese, Augusto Monti.

Così Santo Stefano Belbo e Torino si emancipano presto in una scissa geografia dell’anima: dell’innocenza e della coscienza, del primordiale e dell’evoluto, della natura e della storia. Ache se il montaliano ingresso nel «mondo degli adulti» nelle liriche di Lavorare stanca si profila per il poeta come una volontarstica conquista dell’uomo, una poesia che vuol narrare apre strade da percorrere allo scrittore. Poesia-racconto, appunto, secondo una celebre dichiarazione dell’autore esordiente, rivolto senza remore all’esempio whitmaniano, Nasce la poesia di Pavese, e nasce, confortata dal riferimento culturale particolarmente ampio e di continuo incrementato, la sua narrativa: da Il carcerePaesi tuoiLa bella estateLa spiaggia, gli esiti maturi del dopopguerra: Il compagnoLa casa in collinaIl diavolo sulle colline, il bellissimo Tra donne soleLa luna e i falò, senza dimenticare le delucidazioni artistiche svolte in chiave mitico-antropologica e psicoanalitica dai Dialoghi con Leucò.

L’esercizio scrittorio di Pavese si lasciò in effetti pilotare solo da se stesso, riducendo a diacronia di soluzioni espressive (talvolta semplicemente giustapposte e così fatte reagire) insoddisfazioni e contraddizioni, bisogno partecipativo e sfiducia nelle collaborazioni al farsi della storia, autenticità dolorosa della solitudine e urgenza di appoggi, oscurità e chiarezza.

L’arte operò i suoi risarcimenti, consentendo risultati individui e resistenti. «Sulle colline il tempo non passa», si legge nei modi lapidari di una sentenza nel romanzo La luna e i falò. Pavese ritrova in questi termini la sua completezza, l’incalco meno imperfetto delle sue ambizioni, della propria immagine. «La passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la  verità demonica di piante, acque, rocce e paesi –  si legge del resto nel diario di Pavese alla data del 9 gennaio 1950 –  è un segno di timidezza, di fuga davanti ai doveri e agli impegni del mondo umano». Ma è proprio questo spietato rifuto dell’illusione –  di ogni illusione –  a sostanziare come una realtà già conseguita l’auspicio di cui l’epigrafe alla Luna e i falò si faceva portavoce: «Ripeness is all».

Alla maturità di un’opera che senza infingimenti e tergiversazioni aveva riconosciuto che «crescere vuol dire morire», Pavese era giunto attraverso la scrittura.

Marco Marchi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese

(da Verrà la norte e avrà i tuoi occhi, 1951)

I VOSTRI COMMENTI

m
La grandezza tragica di King Lear mi sembra un’ottima chiave di lettura per l’universo pavesiano. E’ davvero necessario tornare a leggere e rileggere Pavese, liberandosi da inveterati schemi interpretativi e concettuali: solo così riusciremo a restituire a questo geniale autore un posto di assoluto primo piano nel nostro Novecento.

tristan51
“Crescere vuol dire veder morire”. Un grande oltre ogni moda, oltre ogni temperie del visibile, oltre ogni giudizio: un classico.

Giulia Bagnoli
Bellissima! “Sarà come smettere un vizio”: il “vizio assurdo” di Pavese è sia la vocazione al suicidio che vivere, tuttavia il “vizio assurdo” è anche quel mestiere dello scrittore che coincide con quello di vivere. Il gesto di scrivere diventa privo di senso, soltanto un gesto appunto, equiparabile a quello di togliersi la vita, nella consapevolezza che anche scrivere non serve a niente, se non a difendersi dalle offese della vita (“la letteratura è l’unica arma contro le offese della vita”, scriveva). Ho sempre immaginato Pavese come un uomo “senza pelle” che sente tutto e ad un certo punto non può più difendersi.

Duccio Mugnai
L’esperienza devastante del mancato controllo della vita si riverbera nell’impossibilità di riuscire ad amare la donna che si desidera. Così gli occhi, peraltro i primi a decomporsi in natura e ultimi particolari fisici ad essere dimenticati, arrivano solitari e freddi come una condanna, come una denuncia all’incapacità di essere maturi. “Ripeness” è impossibile. E la vita si uccide in tutto ciò che negli occhi di una donna appare come impotenza, irraggiungibilità, impossibilità di difendersi da ogni male, che sia malattia, destino avverso, persecuzioni, droga, solitudine, ecc., cioè la complessità perversa e crudele dell’esistere.

Matteo Mazzone
La devastazione è la sensazione principale che dilania l’animo di Pavese: una consapevolezza, sempre più crescente e sempre più dolorosa, di una “vita non vita”. Dapprima, dunque, una meditazione che si fa accecante parola scritta, sudata macchia di sangue, fino alla risolutezza cruda ed acerba: il nuovo obbiettivo è il raggiungimento del “gorgo del nulla”, infelicemente cantato anche dall’ultimo d’Annunzio, in cui l’uomo si riduce ad essere “il cane del suo nulla”. Ma per Pavese l’uomo non sminuisce alla maniera dannunziana: trasumana insofferente, s’allieva di ogni dolore vissuto o da vivere, si fa abbracciare dal caldo ed amichevole soffio di una morte che si presenta come una domestica ed inscindibile compagnia. Rimane solo desolazione, estrema indifferenza per il proprio io, sicura voglia di morire.

Pietro Paolo Tarasco
Leggo questa toccante e triste poesia intrisa di incommensurabile e struggente bellezza, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi – questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera…” Penso alla tragedia di questi giorni! Noi…tutti, ogni attimo uniti tra terra e cielo.

Laura Diafani
Rileggevo ora l’Introduzione di Davide Lajolo alla sua biografia di Pavese, appunto ‘Il “vizio assurdo”‘, Storia di Cesare Pavese’ (ll Saggiatore 1960), che trovai tempo fa su una bancarella. Lajolo riferisce parole private di una conversazione con Pavese che vanno in direzione di quella ossimorica e latente unità nella diacronia che Marco Marchi evidenziava: “Non sono per questo un uomo complesso, come ha scritto chi ha parlato dei miei libri. è complessa la vigna, dove l’impasto concimi-sementi, acqua e sole, dà l’uva migliore, ma non quella dove, troppo spesso, alla stagione del raccolto le viti sono inaridite e senza grappoli. Io sono fatto di tante parti che non si fondono; in letteratura l’aggettivo adatto è eclettico. è propiro l’aggettivo che odio di più nella vita e nei libri, ma il mio odio non basta a espellerlo” (p. 10).

Elisabetta Biondi della Sdriscia
E’ straordinario come il testamento poetico di uno scrittore come Cesare Pavese si collochi nel rispetto apparente di una tradizione letteraria verso la quale si era mostrato innovatore con i suoi lunghi versi dal sapore di prosa. Detto questo, però, dobbiamo osservare che in questa poesia bellissima il topos letterario degli occhi dell’amata, caro alla poesia stilnovista, viene qui innestato su quello romantico di amore e morte e sinesteticamente collegato al tema tutto novecentesco dell’incomunicabilità. Due strofe di novenari che pur nella loro diversa lunghezza si corrispondono simmetricamente, riprendendo i motivi del silenzio, dello specchio, della caduta delle illusioni e della speranza in una prospettiva di progressivo avvicinamento alla morte, che ci richiama inesorabilmente fino ad avvolgerci nelle spire di un gorgo senza scampo che ci priverà definitivamente della possibilità di comunicare.

Maria Antonietta Rauti
Costance Dowling: questo il nome dell’attrice americana da cui il Poeta ha subito una delusione amorosa a cui pare legato il testo poetico che sembra rievocare l’amore inteso in maniera petrarchesca e leopardiana. Gli occhi, la parola, il silenzio, la speranza, la vita e poi il nulla, la morte quale compagna di vita sono incontri importanti tra lo scandire dei versi di Pavese…
E poi come non soffermarsi sulla magia dello specchio che si ripete come immagine simmetrica,ma non statica, capace di deformare l’azione facendo”riemergere un viso morto” e capace di far parlare un “labbro chiuso”?

Maria Antonietta Rauti
Com’è bello leggere così tanti commenti!!

Giacomo Trinci
Il novenario, in questa poesia di Pavese, silenzia il suo bel canto e, prosciugato della sua facile musicalità, inventa il passo lento, meditato di una quasi prosa, di un racconto mormorato a un se stesso leopardianamente affrontato in corpore vili. Le due strofe siglano vita e destino in un abbraccio definitivo e la “poesia della tradizione” si decanta in asciutta, severa e dolente marcia funebre.

Lorenzo Dini
Poesia testamento splendida da leggere e rileggere. “Scenderemo nel gorgo muti”: verso terribile che getta un’omba di oscuro presagio sul poco successivo gesto, incontrovertibile e risoluto, del suicidio. Muto il gorgo di ascendenza dantesca, come muta, impenetrabile ed originaria la condizione di solitudine di Pavese.perdindirindina
Un implacabile sguardo sulla realtà quello di Pavese, che rilegge in chiave novecentesca l’eterno binomio amore-morte e che non riesce mai a separare il senso di quest’ultima dal quotidiano esistere, anche quando la stessa esistenza dovrebbe essere sublimata dalla forza del sentimento. La donna, la speranza, anche la poesia sono inutili appigli per chi può solo precipitare nel silenzioso gorgo del nulla.

Marco Capecchi
Il dolore che non tradisce, come cifra della vita. Immenso scrittore e grande poeta.

……………………

Il sorriso della Chimera. Campana

VEDI I VIDEO “La Chimera” letta da Vittorio Gassman , … e da Carmelo Bene“La Chimera” secondo Aion Teater , Scene da “Un viaggio chiamato amore” di Michele Placido (2002)

Firenze, 6 dicembre 2016 – Campana, prima che il conato vocativo che sigla la sua celebre La Chimera si manifesti e si faccia via via più esplicito e cogente, confessa una sua incapacità: “Non so se…”. Ma è proprio da questa incapacità dichiarata e subito chiamata in campo, da questa condizione di instabilità e insicurezza immediatamente esibita e partecipata al lettore fattasi incipit sonoro, primo accordo della partitura lirica, che la modernità della sua poesia si emancipa.

L’invocazione di Campana per dirsi compiutamente si fa visione, visività pronta già a sua volta, investendo e confondendo piani e pertinenze del reale, visionarietà. Il naturalismo e l’impressionismo nella poesia dei Canti orfici deflagrano, il simbolismo biologico e nel contempo storiograficamente coniugato di Campana si fa cangiante, si drammatizza, straripa e trabocca dappertutto, mentre l’espressionismo è pronto ad ogni passo a trionfare e divampare, incupendo con la sua scura fiamma ogni perlaceo scenario della suggestione, ogni parvenza del reale abbellita da nuances, impreziosita da luminosi aloni di superficie esistenzialmente fallaci, solo seduttivi ed ingannevolmente avvincenti o consolatori.

La poesia dei Canti Orfici è poesia culturalizzata, è sempre bene precisarlo, e anche negli storiografici termini attraverso i quali stabilisce la propria incidenza di messaggio si dimostra poesia impossibilitata a rivendicare comodi contrassegni identitari, facili abitabilità e domiciliazioni: «lineamenti fissi», potremmo dire, «stabili possessi» citando un celebre «osso breve» che pochi anni dopo avrebbe scritto Eugenio Montale, rivolgendosi non alla Chimera ma tout court alla propria vita.

Quel Montale cantore della negazione della parola che «squadri da ogni lato» un’umana «anima informe»; quel Montale in attesa del miracolo conoscitivo della poesia che trova in un avverbio dell’incertezza – come in Campana e come in un celebre sonetto di Foscolo, Alla sera – l’attacco di una altro suo «osso breve» come Forse un mattino andando…; quel Montale che in veste di critico, lettore dotato di poesia altrui, tra vita e cultura, psicologia e linguaggio, definirà mirabilmente la poesia di Dino Campana nei termini di una «poesia in fuga», cogliendo in una sorta di sempre inappagato, sintattico e musicale dinamismo l’alto grado di instabilità da cui la stessa richiesta di poesia avanzata dal poeta e da lui strenuamente perseguita muove, ad essa sostanzialmente ritornando ma in espressionistici e visionari termini d’arte realizzata, per imprevisti straripamenti ed esondazioni di senso.

E’ un regime dell’incertezza, del probabilismo che niente risparmia, che tutto investe; e la veggenza si fa erranza, richiamo accondisceso a quegli oscuri luoghi dell’«altrove» e della «seconda nascita» di cui un altro grande poeta del primo Novecento, l’autore delle Elegie duinesi, Rainer Maria Rilke, ci parla. Analogamente, coerentemente, la poesia dei Canti orfici sarà poesia della notte, e Campana sarà poeta per antonomasia «notturno», espressamente disposto secondo queste modalità e questi connotati di afferenza orfica a certificarsi internamente a un testo come La Chimera.

Campana scrive d’altronde, prosimetricamente aperto, le stupende pagine della Notte, come si fa evocativo, impaurito e impavido cantore del Canto della tenebra, riconfermando attraverso questa vocazionale e programmaticamente rafforzata frequentazione del buio e della profondità la sua appartenenza a forme e prospettive del moderno: una modernità di inizi secolo in sintonia con le parallele, sbaraglianti scoperte della scienza culminate nell’opera di Sigmund Freud.

Marco Marchi

La Chimera

Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

Dino Campana

(da Canti Orfici, 1914)

I VOSTRI COMMENTI

Daniela Del Monaco
Campana usa come simbolo della Chimera l’immagine di una fanciulla ineffabile, irraggiungibile, sorella della Gioconda leonardesca che, com’è noto, rappresenta l’enigma per eccellenza. Il suo sguardo moderno e problematico, infatti, non svela ma nasconde e il suo sorriso da contemplare è fatto di “lontananze ignote”. Questa visione sembra identificarsi con la Poesia stessa alla quale il poeta aspira e che assume moltissime forme, proprio come la chimera mitologica. Sia la donna, sia la poesia hanno dunque una matrice comune: il “dolce mistero”. La sola cosa importante per l’autore è continuare disperatamente a cercare, a invocare e, quasi, evocare la Poesia, che altro non è se non un sogno vano, un’utopia.

Duccio Mugnai
Come è risaputo, tratto caratteristico del genio è “sapere” prima di aver conosciuto. Bisogna chiedersi quanto questo fatto coincida con l’unicità di Campana. Si è parlato spesso di stile ed immaginario “rimbaudiano”, genuinamente scevro da dominazioni e parvenze di filtri culturali troppo evidenti. Eppure è “Chimera” come incubo di sembianze femminili, fascinose, cangianti e proteiformi; gia presente nel gioco edonistico, estetizzante e superomistico dannunziano, potrebbe preludere anche la terribilità esistenziale pavesiana di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. E’ sublimità ineffabile e orfica dei versi di Campana, senza dimenticare che il senso più autentico e profondo del poetare è la fuggevolezza e l’indefinibilità.

m
Come ha scritto un instancabile lettore di Campana, i Canti orfici sono “il libro scritto nel mondo, nel circuito della vita planetaria” e ancora: “un ponte, un’offerta di soluzione all’impasse che la poesia moderna e il pensiero moderno hanno dovuto subire irretendosi in se stessi. Questo, di Campana, che sembrava una specie di sogno retrospettivo invece ha, secondo me, una carica anticipatrice”.

Aretusa Obliviosa
L’orfismo di Campana non ha eguali nel nostro panorama letterario. C’è qualcosa di atavico e di primordiale nell’incedere cantilenante della poesia campaniana, che risale alle sorgenti dell’oralità per poi abbandonarsi ad una mitologia che, pur attingendo a piene mani ad un decadentismo estenuato, ad un acceso cromatismo dal tratto espressionistico, ad una dimensione onirica a metà strada fra tragedia classica e moderna psicologia, rimane in ultima analisi non databile e fuori da ogni circoscritto spazio temporale.

Giulia Bagnoli
La Chimera: capolavoro assoluto del visionario poeta; una personificazione della Poesia, misteriosa e affascinante come una donna, spaventosa come un mostro. La Poesia a cui il poeta aspira è tanto preziosa quanto inafferabile e lontana, ed egli non può che reclinare la testa in atteggiamento servile e continuare disperatamente ad evocarla. Campana cercando la Poesia ne ha scritta una perfetta.

Isola Difederigo
“La poesia del nostro tempo – chi scrive è ancora l’instancabile lettore di Campana – vive di un terribile dilemma: o tutto o nulla. Per avere acceso questo dilemma in modo così folgorante, alle origini della nuova poesia italiana sta Dino Campana”.

Chiara Scidone
Trovo molto interessante il fatto che Campana si autodefinisca “poeta notturno”e penso che questa definizione spicchi in particolar modo in questa poesia (es. “sorriso di un volto notturno”). La chimera è misteriosa, ambigua e rappresenta il simbolo del mistero dell’esistenza umana. Affascinante come essa sia evocata, come se il poeta usasse un incantesimo.

Giacomo Trinci
Iterazioni, chiasmi, anafore, presentano lo straordinario e smagliante spartito di questa musica risucchiante, che fa percepire in modo forte al lettore che si fa ascoltatore quella ‘minorità’ che è una categoria deleuziana, in accezione cromatica, e musicalmente minore. Il lessico dannunziano, con annessa l’internazionale simbolica, si disintegra e sfarina nell’iterazione sonnambolica, nelle anafore da ipnosi acustica. La poesia risucchia se stessa in un’autocombustione assoluta che lascia il corpo del poeta da solo, zoppicante e nomadico zingaro della vita. La voce che canta in questa grande evocazione di materia che spossessa, è quella di misteriose cantilene che ci raggiungono dal profondo di noi stessi, che ci sfanno.Non ci appartengono ed emergono in ironici bamboleggiamenti, in quieta follia. Grande musica di uno spossesamento corporeo e mentale.

Matteo Mazzone
La componente linguistica è il cuore del componimento: il tema poetico/poietico si traduce nella dolce ridondanza musicale di espressioni analogiche, di criptiche descrizioni intersoggettive; la lirica si rende, dunque, come punctum barthiano, ovvero gamma di possibili interpretazioni, chiavi prospettiche di letture sempre nuove. Tale complicità interpretativa deriva dalla natura stessa del componimento, quella di visionario-prodotto di un visionario.
L’attacco “Non so” (poi riproposto quasi alla fine del testo) nega, di per sé, il campo di uno scibile sicuro e veritiero e si ricollega alla imprevedibilità dell’apparizione. Non c’è molto da sondare e da comprendere, se non che il tutto si presenta come una timida registrazione di un incontro non-incontro, laddove l’emotività del poeta si scontra coll’ineffabile rappresentazione di un’estasi tutta personale, tutta vissuta e tutta misterica.

Sabina C.
Chimera: donna o poesia? E’ la spassionata ricerca di entrambe che muove il poeta e che trova compiuta espressione nell’inebriante e misteriosa atmosfera abitata da chimere evanescenti, impalpabili, inafferrabili, abbaglianti, invocate ed evocate nel dispiegarsi di sensazioni visive e sonore che catturano in un crescendo di dolcezza e musicalità .

Laura Diafani
Per una storia del “non so” in poesia…

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Viaggio disperato verso un possibile significato della vita e ricerca spasmodica di una parola poetica assoluta: i versi notturni di Campana – metafora di un’esistenza brancolante alla ricerca di un senso che è pura Chimera – ci avvolgono con la loro estenuante musicalità, tra iterazioni e assonanze, in un’atemporalità priva di riferimenti spaziali, in una circolarità labirintica senza via d’uscita, che non sia momentanea o illusoria come il sorriso ossimorico della figura mitologica evocata, come i meandri di una psiche alterata. La copiosità lessicale della poesia dannunziana qui non afferma, ma nega certezze e la poesia di Ermione, il canto dell’estate, si fa canto delle tenebre, poesia di una Chimera.

Lorenzo Dini
Nella “Chimera” il senso concreto della fisicità progressivamente si dissolve. Pur partendo da dati solidi, essi sono subito abbandonati e inizia per Campana il “viaggio”. Il dissolvimento dell’oggetto si attua sul piano stilistico attraverso suggestioni musicali, coloristiche e talvolta olfattive (è il caso dell’ “aroma di alloro” in “Giardino autunnale”). Ed è così che la parola riacquista nei “Canti orfici” la sua verginità, perdendo il carico di significati culturali e tornando a convertirsi in ebbra musica. La parola in Campana ha sempre questo carattere di “vertiginosa eloquenza musicale”, come a suo tempo scrisse acutamente Sergio Solmi.

Nell’illustrazione: Pietro Paolo Tarasco, L’albero dei libri, acquaforte, 1999

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