VEDI I VIDEO “Alba” , “Congedo del viaggiatore cerimonioso” letto da Roberto Herlitzka , “Preghiera” letta dal poeta , “Il mare come materiale”Ritratto di Giorgio Caproni

Firenze, 7 gennaio 2017 – Ricordando che il 7 gennaio 1912 nasceva a Livorno Giorgio Caproni.

Fu bello tempo fa parlare di Giorgio Caproni, «chiacchierare» – a Firenze, nella città dove il poeta incontrava Luzi e Betocchi – di un suo libro intitolato Era così bello parlare, in cui erano stati raccolti i testi di quattro sue conversazioni radiofoniche risalenti al 1988.

Un pomeriggio alla Sala degli Specchi di Palazzo Vivarelli Colonna, con Luigi Surdich, Franco Contorbia e un pubblico particolarmente attento, ed è già ricordo, con l’ingrediente oltremodo attinente al discorso della poesia, della memoria: della sua capacità, tramite le parole della poesia e quelle attorno ad essa gravitanti, di rendere bello e vivo ciò che è stato, di conservarne e potenziarne gli attributi di realtà su scenari irripetibili, ormai deserti e sostituiti da un altro presente, con le sue voci e i suoi significati, aleatorio e instabile come un paesaggio visto dal treno e tuttavia di nuovo assaporabile, su cui riflettere, magari in compagnia di un altro grande poeta che con Caproni ha molto a che fare: Leopardi.

Sì, fu bello: quasi un dono protratto, prolungabile in assenza, in cui la nostalgia si annulla. Grazie al libro che un capronista di vaglia come Surdich aveva allestito per le edizioni genovesi del «Melangolo», l’affabilità del poetare di Caproni era tornata a farsi intrattenimento, conversazione a margine, ma era rimasta discorso intrinseco. Le parole era in molti casi le stesse, la sintassi, il fraseggiare e il suono complessivo, le impuntature precisanti e gli incisi, addirittura le sospensioni e i silenzi restituiti sul filo di un’oralità trascritta, erano gli stessi: fino a trasformarsi in quintessenza fisionomica, in tratti di riconoscimento.

Erano gli stessi, d’altra parte, i significati inseguiti, cacciati da un’ispirazione implacabile, scritti davvero per forza, per rimediare alla povertà dell’essere al mondo, per consentire con meraviglia, di quel mondo, la sopravvivenza o la stupita riabilitazione di un attimo. Un attimo di schiarita oltre il tempo e i confini dell’io, e parole destinate, in caso di riuscita, a coincidere con la vita, a doverne costituire in blocco la testimonianza, vivida e necessaria nella sua essenzialità chiamata al dunque, soggetta agli ultimi accertamenti: come i tesori nel fagotto di Annina, la madre di Giorgio nei Versi livornesi, anche lei in viaggio, bloccata tra i fumi di un metafisico bar di stazione, confusa, piangente, senza parole, ma nell’intimo – forse aiutata da un semplice bigliettino di raccomandazioni che come altre volte ha lasciato sul tavolo di cucina assentandosi da casa, forse soccorsa dalla poesia di un figlio che (la poesia meglio di Freud sa dirlo) è il suo fidanzato e la resuscita – non in balia del nulla.

Scriveva Pasolini, un altro poeta in viaggio buio e iridescente, il poeta della «disperata vitalità» faccia a faccia con il poeta della «disperazione calma»: «Anima armoniosa, perché muta, e, perché scura, tersa: / se c’è qualcuno come te, la vita non è persa». Ed è davvero così. La figura e l’opera di Caproni valgono a non farci perdere la vita: anzi, sono qui a tal punto da farci dire, sottraendoci agli indugi dei verbi al passato e alle angustie desideranti che inevitabilmente ogni bel ricordo porta con sé, che è ancora bello stare con te, Caproni, è così bello sentirti parlare.

Marco Marchi

Alba

Amore mio, nei vapori di un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitio tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte,
qui, col tuo passo, già attendo la morte.

Giorgio Caproni
(1945; da Il passaggio di Enea)