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Firenze, 23 gennaio 2017 – Ricordando che il 23 gennaio 1899 nasceva a Torino Carlo Betocchi.

Anche dopo le celebrazioni del trentennale della morte del poeta, il «caso Betocchi» resta uno scandalo letterario del nostro tempo. Se Firenze non da oggi ha dedicato a Carlo Betocchi un centro studi e un premio che ogni anno si celebra, se a Firenze in perfetto orario sulla data anniversaria della scomparsa ha degnamente ricordato Betocchi, altrove a un poeta tra i massimi che la letteratura italiana novecentesca abbia avuto si tende a negare il riconoscimento che gli spetta: un riconoscimento che dovrebbe risultare unanime e convinto per evidenza di fatti, sul quale dovrebbero parimenti convergere il giudizio dei critici e l’affezione di un ampio pubblico.

Si continua al contrario a trovarci di fronte ad un poeta dimenticato o nel migliore dei casi sottovalutato e frainteso. Giocano contro Betocchi molti elementi: la sua toscanità un tempo vincente, il suo esibito ancorché discusso cristianesimo, la sua stessa, autorizzata e semplificata, immagine di poeta per dono, per grazia ricevuta, che al contrario abbina ai suoi innati talenti alte dosi di conquistata cultura. Tutto congiura a penalizzare un messaggio meraviglioso, trepidante e inquieto, quanto mai necessario in un mondo che sempre di più si dimentica, assieme alla poesia di Betocchi e alla poesia tout court, dell’uomo.

L’invito, per reagire, è quello a rileggere l’autore di «Realtà vince il sogno», «L’Estate di San Martino» e le «Poesie del Sabato», e a rileggerlo in Tutte le poesie edite ora da Garzanti secondo la felice immagine-sigla che di lui ci ha lasciato Andrea Zanzotto: «poeta dei tetti, delle tegole» e insieme «poeta del cielo».

Betocchi – da poeta «terrestre e celeste», per dirla con un altro grande poeta suo amico, Mario Luzi – è là, sull’arduo discrimine in cui l’«io» e il reale si incontrano, s’interrogano, comunicano. «Dai tetti», secondo un titolo betocchiano, con quel simbolico luogo deputato della trascendenza a portata d’uomo, linea di confine tra dimensioni che si integrano, di appannaggi umani irrinunciabili e spiritualmente qualificanti.

Quanti tetti nella poesia di Betocchi! Dai «poveri tetti» della sua professione di geometra già presenti nel libro d’esordio agli incanti e i miraggi di «Tetti toscani» e «Diarietto invecchiando», al silenzio espressivo del «tetto avvampato di caldo» che compare solitario in «Un passo, un altro passo».

In un’epoca di già dilagante gusto per record, classifiche e «top ten», proprio a Luzi fu chiesto una volta di indicare la poesia più bella del nostro Novecento, e Luzi segnalò allora un testo di Betocchi al quale anch’io ho sempre pensato come a qualcosa di sublime, a un testo semplicemente stupefacente.

È la poesia che dice: «Rotonda terra; scena che si ripete, / in te, del saluto serale: consuetudine / mia planetaria, di tegola in tegola, / del mio vivere che se ne va col tuo / trapassare, lume diurno, lento, / sul tetto davanti casa; e mio formarsi, / intanto, un petto come di colomba; / e metter piume amorose per la notte / che viene; ravvolgermi unitario / con essa: pigolio interiore; perdita / dell’umano: divenir mio universale». Versi che dovrebbero bastare da soli a fare la gloria di un poeta.

Marco Marchi

Il dormente

Io mi destai con un profondo
ricordo del mio sonno.
Dalla mia veglia guardavo
il mio corpo dormiente,
era giorno, era un chiaro
giorno silente.

Quando le sere d’estate
esalan profumate
tenebre sul fiume, un uomo
giace sopra la riva
addormentato dal suono
dell’onda viva.

Passano sopra il suo viso
l’ombre del paradiso
lunare, tra i flessuosi
salici e il lieve vento;
celano gridi amorosi
l’erbe d’argento.

Vento e prati fluttuando
muoiono con un blando
fiotto e là, presso il suo corpo,
come a un’isola viva
da un mare languido e smorto
il flutto arriva.

Presso il suo corpo si rompe
quell’ineffabil fonte;
e il suo respiro leggero
di creatura che dorme
scioglie nell’etereo cielo
azzurre forme.

Carlo Betocchi

(da Altre poesie, 1939)

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