31 gennaio 2017 – Un meritatissimo e graditissimo trionfo, questo mese, quello del grande Rainer Maria Rilke con il suo post dal titolo Orfeo, Euridice, Ermes. Rilke nell’arcana miniera delle anime, incentrato su un vero gioiello della sua sempre alta ed ispirata produzione in versi. Rilke, come tutti sanno, non è autore facile, ma la bellezza che vorrei definire autoevidente di questo poemetto tra mito antico e rivisitazione in chiave moderna si è imposta all’attenzione di molti, decretandone con un’ampia serie di commenti l’affermazione. Anche quando più complessa e misteriosamente avvolta nelle sue leggi che non altro rimandano che alla sua stessa configurazione testuale, la vera poesia giunge sempre alla mente e al cuore di chi la ricerca, di chi a lei con confidenza si rivolge.
Anche i vostri commenti del mese risaltano per ampiezza e penetrazione. Ne scegliamo come al solito tre: quelli, stavolta, di Aretusa Obliviosa, di framo e di Matteo Mazzone. Rispettivamente: “All’orecchio di chiunque ami c’è una parola, in questa lirica, che suona terribile, scandalosa, intollerabile, ed è quel “chi” posto a fine di verso nella versione italiana (non conosco il tedesco, purtroppo), oltre il quale sembra calare il gelo assieme al silenzio. A nulla valgono i versi precedenti: nonostante Euridice venga descritta ormai come una entità lieve, che non ha più niente di umano, aldilà della soglia della vita per essere con la morte, il mancato riconoscimento di Orfeo risulta inevitabilmente inaccettabile per il lettore che con lo stesso amante si identifichi. E in effetti non altro che senso di morte e sgomento prova in cuor suo ogni persona che amando si senta improvvisamente rifiutata. Rilke riesce con il suo genio e la sua ispirazione a dire tutto questo e molto di più. Basti pensare al continuo oscillare fra vita e morte, centrale in questa lirica così come nella poetica stessa dell’autore e alla serie di antinomie che ne scaturiscono: la gravità contro la levità, l’impazienza contro l’incerta mitezza, la percezione dei sensi contro l’intangibilità. La visione rilkiana dell’aldilà e più in generale dell’ignoto che da qui scaturisce mi pare in conclusione del tutto negativa: se è all’insegna della mitezza per un’ancora inconsapevole Euridice appena iniziata alla dimensione della morte, per il lettore essa risulta indissolubilmente legata all’arcano, al tenebroso, a scenari spettrali connotati da vuoti abissi e dall’assenza di ogni nota di colore, fatta eccezione per un onnipresente grigio che tuttalpiù finisce con lo sbiancare in una tavolozza monocromatica sempre più scialba. Eppure ancora molto resterebbe da dire, a proposito, per esempio, di una poesia che, seppur modernissima, sembra voler recuperare nell’essenzialità e purezza lessicale la primigenia dimensione epica dell’oralità. Ma è un’epica quella rilkiana scevra di valori da proporre o da insegnare, connotata piuttosto da un senso di angoscia che sembra permeare ogni molecola dell’esistente ed aleggiare ovunque, fino a divenire, almeno per me, indiscussa novecentesca protagonista in molte pagine dell’autore.
Ma mi rendo conto che potrei continuare a spendere parole e che Rilke resterebbe comunque molto più di quanto detto“, “Assieme al ritrarsi fatale sia di Euridice (resasi irreversibilmente “intangibile”) sia di Orfeo (fattosi “scuro”, “irriconoscibile” e immobile) a cosa approda questa mirabile full immersion nell’esperienza straniante della perdita irrevocabile (di sè, del mondo conosciuto ed esperito, dei suoi elementi più consueti e condivisi)? Come sempre in Rilke il percorso si fa meta. In un processo di continua metamorfosi – in cui mondi, soggetto, oggetto e attributi compenetrandosi si “sfigurano” e sfigurano -, dalla soglia dell'”uscita chiara” di questo viaggio al cuore della tragedia, non più impaziente, fa ingresso lo sguardo del postOrfeo rilkiano, reso ormai “mite” dal passo turbato della morte; e con esso un modello insuperabile di poesia che, esortando a “mescolare (i morti) a ogni cosa veduta”, riesce a “rendere vero” l’incanto di ogni immagine creata e/o ricreata (Dai “Sonetti a Orfeo” – I,6). A novant’anni dalla morte, Rilke, incontrovertibilmente il più grande“; “La trascrizione di uno dei più celebri trai miti metastorici si traduce in un canto del lamento, dell’impossibilità melanconica della restituzione: un amore morto che vive nella morte confezionata perché adattata ai prigionieri-amanti. Tutto è straordinariamente liricizzato: niente stona. La cadenza, la giusta ponderazione del segno linguistico trasumana ogni più abietta sensazione di “tristitiam”; è la mitizzazione, la cristallina descrizione di un mito, per cui l’atmosfera che va creandosi è quella paradossale del mito del mito, cui Rilke e la sua poesia ci hanno felicemente abituati. Canto, strumento, tenebra, morte: oggetti e luoghi che ricordano il musico infernale Orfeo, la sua dolorosa esperienza dell’esperibile, che, purtroppo, naufraga per colpa di quella prerogativa troppo umana, dantescamente “folle”: la fretta. Tutto precipita: dalla vita ad un’altissima meditazione circa la morte: morte del pensiero, del corpo, del senso“.
Ma come, fra tanta dovizia di intuizioni e indicazioni, non ricordare anche il commento breve ma intenso di Giacomo Trinci che musicalmente ci invita all’ascolto? Scrive Trinci: “Un testo che incute tremore e timore: per il modo come viene musicato uno dei temi, degli spartiti più delicati e difficili dell’operare umano: quello del rapporto vita-morte, del loro reciproco chiamarsi ed escludersi. Il tutto, cantato con quella misura superba del metro che tutto misura, contiene. La traduzione di Gilberto Forti dona il senso pieno di un canto teso alla restituzione di un mondo perduto, a cui la tessitura dell’endecasillabo italiano fornisce testimonianza e lucentezza. Ascoltiamone, con attenzione, il fraseggio“.
Al secondo e al terzo posto del podio di gennaio due ex aequo, con quattro autori italiani di primo piano: argento per Giorgio Caproni e Camillo Sbarbaro ( L’amore d’inverno. Giorgio Caproni e Il risveglio di Camillo Sbarbaro), bronzo per Mario Luzi e Federigo Tozzi (Luzi e la somma equalità del giorno e Tozzi poeta e le antiche torri di Siena).

A domani, con nuove letture e con una nuova gara!

Marco Marchi

Orfeo, Euridice, Ermes. Rilke nell’arcana miniera delle anime

VEDI I VIDEO “Orfeo. Euridice. Ermes”“Orpheus. Eurydike. Hermes” , “J’ai perdue mon Eurydice” di Gluck cantata da Maria Callas“Euridice” di Roberto Vecchioni , “Esperienza della morte”

Firenze, 3 gennaio 2017 Ricordando, a qualche giorno di distanza dalla ricorrenza anniversaria, che il 29 dicembre 1926 moriva a Montreux, in Svizzera, il grande Rainer Maria Rilke.

Orfeo. Euridice. Ermes

Era l’arcana miniera delle anime.
Esse per quella tenebra vagavano,
mute vene d’argento. Tra radici
sgorgava il sangue che affluisce agli uomini,
e greve come porfido sembrava
in quel buio. Di rosso altro non v’era.

V’erano rocce,
boschi spettrali. Ponti sopra il vuoto
e quello stagno grande, grigio, cieco
che incombeva sul suo letto remoto
come cielo piovoso su un paesaggio.
E la striscia dell’unico sentiero,
scialba tra prati, facile e paziente,
pareva lino steso a imbiancare.

Per quell’unica via i tre venivano.

Primo, nel manto azzurro, l’uomo snello,
muto e impaziente, gli occhi tesi avanti.
Il suo passo ingoiava il sentiero
a grandi morsi, senza masticare;
dalle pieghe cadenti gli pendevano
le mani, grevi e serrate, ormai
dimentiche di quella lieve lira
che sulla sua sinistra era cresciuta
come tralci di rosa sull’ulivo.
E i suoi sensi sembravano divisi:
l’occhio correva avanti come un cane,
si voltava, tornava e ripartiva
e aspettava lontano, a ogni curva,
ma l’udito indugiava come l’odore.
Talvolta a lui pareva che intralciasse
il passo agli altri due che dovevano
seguirlo su per tutta la salita.
Allora dietro solo l’eco
dei suoi passi e il vento nel mantello.
Ma diceva a se stesso che venivano,
e a voce alta, e udiva il suono spegnersi.
Sì, venivano infatti, ma entrambi
avevano il piede troppo lieve.
Se si fosse voltato (e non poteva,
poichè un solo sguardo frantumava
tutta l’impresa da portare a termine),
li avrebbe visti, i due dal piede lieve,
camminare in silenzio alle sue spalle:

il dio del moto e dell’ampio messaggio,
con il casco sugli occhi luminosi,
l’agile verga tesa innanzi al corpo,
le ali oscillanti intorno alle caviglie;
e nella sua sinistra, in pegno, lei.

Lei, tanto amata che una sola lira
levò lamento più che mai le prefiche;
e sorse un mondo di lamento in cui
tutto ricompariva: bosco e valle,
strada e paese, campo e fiume e bestie;
e intorno a questo mondo di lamento,
così come intorno all’altra terra,
un sole si volgeva, e tutto un cielo
pieno di stelle, silenzioso, un cielo
di lamento con stelle sfigurate-:
lei, tanto amata.

Ma, tenuta per mano da quel dio,
con il passo frenato dalle lunghe
bende funebri, ella camminava
incerta, mite e senza impazienza.
Raccolta in sè e come trasognata,
non pensava a colui che le era innanzi,
nè alla strada su verso la vita.
Era raccolta in sè, e la impregnava
il suo stato di morte.
Se un frutto è pegno di dolcezza e d’ombra,
quella sua grande morte colmava,
così nuova che nulla lei coglieva.

A una verginità nuova era giunta,
e intangibile; il suo sesso era chiuso
come un giovane fiore verso sera,
e le sue mani così disavezze
alla vita nuziale che persino
il contatto di quell’esile dio
tanto lieve e gentile nel condurla,
la turbava per troppa confidenza.

Ormai non era quella donna bionda
che si udiva nei canti del poeta,
non più il profumo e l’isola del talamo,
nè più era il possesso dell’uomo.

Era già sciolta come una lunga chioma
e già dispersa come pioggia in terra,
e diversa come retaggio in cento.

Ella era già radice.

E quando all’improvviso
il dio la fermò e con dolore
pronunciò le parole: Si è voltato!-,
lei non comprese e disse piano: Chi?

Ma lassù, scuro sull’uscita chiara,
stava qualcuno, irriconoscibile.
Stava e guardava un tratto del sentiero
in mezzo ai prati ove il dio del messaggio
si voltava in silenzio, mesto in viso,
e si avviava a seguire la figura
che già ripercorreva quel sentiero,
con il passo frenato dalle bende,
incerta, mite e senza impazienza.

(traduzione di Gilberto Forti)

Orpheus. Eurydike. Hermes

Das war der Seelen wunderliches Bergwerk.
Wie stille Silbererze gingen sie
als Adern durch sein Dunkel. Zwischen Wurzeln
entsprang das Blut, das fortgeht zu den Menschen,
und schwer wie Porphyr sah es aus im Dunkel.
Sonst war nichts Rotes.

Felsen waren da
und wesenlose Wälder. Brücken über Leeres
und jener große graue blinde Teich,
der über seinem fernen Grunde hing
wie Regenhimmel über einer Landschaft.
Und zwischen Wiesen, sanft und voller Langmut,
erschien des einen Weges blasser Streifen,
wie eine lange Bleiche hingelegt.
Und dieses einen Weges kamen sie.

Voran der schlanke Mann im blauen Mantel,
der stumm und ungeduldig vor sich aussah.
Ohne zu kauen fraß sein Schritt den Weg
in großen Bissen; seine Hände hingen
schwer und verschlossen aus dem Fall der Falten
und wußten nicht mehr von der leichten Leier,
die in die Linke eingewachsen war
wie Rosenranken in den Ast des Ölbaums.
Und seine Sinne waren wie entzweit:
Indes der Blick ihm wie ein Hund vorauslief,
umkehrte, kam und immer wieder weit
und wartend an der nächsten Wendung stand, –
blieb sein Gehör wie ein Geruch zurück.
Manchmal erschien es ihm als reichte es
bis an das Gehen jener beiden andern,
die folgen sollten diesen ganzen Aufstieg.
Dann wieder wars nur seines Steigens Nachklang
und seines Mantels Wind was hinter ihm war.
Er aber sagte sich, sie kämen doch;
sagte es laut und hörte sich verhallen.
Sie kämen doch, nur wärens zwei
die furchtbar leise gingen. Dürfte er
sich einmal wenden (wäre das Zurückschaun
nicht die Zersetzung dieses ganzen Werkes,
das erst vollbracht wird), müßte er sie sehen,
die beiden Leisen,die ihm schweigend nachgehn:

Den Gott des Ganges und der weiten Botschaft,
die Reisehaube über hellen Augen,
den schlanken Stab hertragend vor dem Leibe
und flügelschlagend an den Fußgelenken;
und seiner linken Hand gegeben: sie.

Die So-geliebte, daß aus einer Leier
mehr Klage kam als je aus Klagefrauen;
daß eine Welt aus Klage ward, in der
alles noch einmal da war: Wald und Tal
und Weg und Ortschaft, Feld und Fluß und Tier;
und daß um diese Klage-Welt, ganz so
wie um die andre Erde, eine Sonne
und ein gestirnter stiller Himmel ging,
ein Klage-Himmel mit entstellten Sternen – :
Diese So-geliebte.

Sie aber ging an jenes Gottes Hand,
den Schritt beschränkt von langen Leichenbändern,
unsicher, sanft und ohne Ungeduld.
Sie war in sich, wie Eine hoher Hoffnung,
und dachte nicht des Mannes der voranging,
und nicht des Weges, der ins Leben aufstieg.
Sie war in sich. Und ihr Gestorbensein
erfüllte sie wie Fülle.
Wie eine Frucht von Süßigkeit und Dunkel,
so war sie voll von ihrem großen Tode,
der also neu war, daß sie nichts begriff.

Sie war in einem neuen Mädchentum
und unberührbar; ihr Geschlecht war zu
wie eine junge Blume gegen Abend,
und ihre Hände waren der Vermählung
so sehr entwöhnt, daß selbst des leichten Gottes
unendlich leise, leitende Berührung
sie kränkte wie zu sehr Vertraulichkeit.
Sie war schon nicht mehr diese blonde Frau,
die in des Dichters Liedern manchmal anklang,
nicht mehr des breiten Bettes Duft und Eiland
und jenes Mannes Eigentum nicht mehr.

Sie war schon aufgelöst wie langes Haar
und hingegeben wie gefallner Regen
und ausgeteilt wie hundertfacher Vorrat.

Sie war schon Wurzel.

Und als plötzlich jäh
der Gott sie anhielt und mit Schmerz im Ausruf
die Worte sprach: Er hat sich umgewendet -,
begriff sie nichts und sagte leise: Wer?

Fern aber, dunkel vor dem klaren Ausgang,
stand irgend jemand, dessen Angesicht
nicht zu erkennen war. Er stand und sah,
wie auf dem Streifen eines Wiesenpfades
mit trauervollem Blick der Gott der Botschaft
sich schweigend wandte, der Gestalt zu folgen,
die schon zurückging dieses selben Weges
den Schritt beschränkt von langen Leichenbändern,
unsicher, sanft und ohne Ungeduld.

Rainer Maria Rilke

(1904; da Nuove poesie)

I VOSTRI COMMENTI

Maria Antonietta Rauti
Forte l’immanenza di Rilke tra i suoi splendidi versi che dipingono con pennellate leggere immagini della miniera delle anime che non può non riportare alla mente Dante e la Divina Commedia… Presenze che sono sopraffatte da un cielo di lamento con stelle sfigurate, qui la magia delle parole ben accostate dal Poeta arrivano a proporre un teatro perfetto in ogni sua componente.

m
Secondo me, un Rilke al suo massimo splendore: maturo e controllato nelle esplosioni della fantasia; leggero e maestoso insieme; lirico e miracolosamente melodico (la lingua si fa musica), ma allo stesso tempo narrativo e non troppo enfatico. Da ricordare anche la splendida, impetuosamente giovanile traduzione di Giaime Pintor.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Un capolavoro assoluto: versi densi e intensi, narrativi, di una narratività che definirei descrittiva. E’ la descrizione del mondo dei morti, un mondo che è rappresentato come poteva apparire a Orfeo, come apparirebbe a persona vivente: un mondo di tenebre, tenebre che però costituiscono le radici dell’umanità. Non c’è posto, in quest’Ade, per i ricordi, per il mondo dei vivi, una distanza incolmabile li separa, una distanza che Rilke mirabilmente rappresenta nel contrasto tra l’impazienza incontenibile di Orfeo e la trasognata indifferenza di Euridice, quasi immobile nel suo incedere lieve, incorporeo. Vano è il tentativo di Ermes di far da intermediario tra i due mondi, lui non appartiene alla terra nè all’Ade e quel sentiero, quella “strada su verso la vita” si può percorrere in una sola direzione. Orfeo con il suo canto d’amore può far apparire come vero il mondo cantato, ma non è un mondo reale, il suo, è “un mondo di lamento” che non può raggiungere la donna, “Lei tanto amata”, ma amata con amore umano, un amore impaziente, incapace di comunicare con l’eterno. Nel brano i tre personaggi non sono mai chiamati con il loro nome: la loro vicenda è dunque assurta a paradigma delle due condizioni terrena e ultraterrena, separate irrimediabilmente dall'”uscita chiara”.

Marco Capecchi
Lascia senza fiato. Semplicemente stupenda. Da rileggere, in silenzio, e ogni mio commento rischierebbe di sciuparla.

Matteo Mazzone
La trascrizione di uno dei più celebri trai miti metastorici si traduce in un canto del lamento, dell’impossibilità melanconica della restituzione: un amore morto che vive nella morte confezionata perché adattata ai prigionieri-amanti. Tutto è straordinariamente liricizzato: niente stona. La cadenza, la giusta ponderazione del segno linguistico trasumana ogni più abietta sensazione di “tristitiam”; è la mitizzazione, la cristallina descrizione di un mito, per cui l’atmosfera che va creandosi è quella paradossale del mito del mito, cui Rilke e la sua poesia ci hanno felicemente abituati. Canto, strumento, tenebra, morte: oggetti e luoghi che ricordano il musico infernale Orfeo, la sua dolorosa esperienza dell’esperibile, che, purtroppo, naufraga per colpa di quella prerogativa troppo umana, dantescamente “folle”: la fretta. Tutto precipita: dalla vita ad un’altissima meditazione circa la morte: morte del pensiero, del corpo, del senso.

Giacomo Trinci
Un testo che incute tremore e timore: per il modo come viene musicato uno dei temi, degli spartiti più delicati e difficili dell’operare umano: quello del rapporto vita-morte, del loro reciproco chiamarsi ed escludersi. Il tutto, cantato con quella misura superba del metro che tutto misura, contiene. La traduzione di Gilberto Forti dona il senso pieno di un canto teso alla restituzione di un mondo perduto, a cui la tessitura dell’endecasillabo italiano fornisce testimonianza e lucentezza. Ascoltiamone, con attenzione, il fraseggio.

Questo capolavoro assomiglia a un sogno inquietante, nel quale si conquista qualcosa di molto prezioso, solo per perderlo dopo un momentoL’estraniamento è forte in ogni indivuduo, e proprio a questa parte , specificatamente, questo canto deve la sua suggestione. Euridice ormai appartiene all’Averno, ha perso il rosso del sangue e il calore della sua corporeità. La sua fertilità si trasfigura in un’altra dimensione fisica, non più a Orfeo appartiene ormai, ma alla terra: ” è già radice”.

Chiara Scidone
Opera eccellente. Finalmente possiamo vedere il punto di vista di Euridice. Ella, ancora avvolta nelle bende funebri, appartiene sempre più al mondo dei morti, incurante e indifferente, non riconosce neanche il volto dell’amato Orfeo quando egli si volta. Si lascia risucchiare dall’ade, ormai è radice. Morte dei sentimenti, non solo del corpo…

Sabina C.
Certa, paziente, indifferente, lentamente Euridice… incede, nel silenzioso vuoto della dimensione eterna che la pervade. Incerto, impaziente, ‘differente’, vigorosamente, impetuosamente Orfeo… cede! Meraviglia!

Maria Grazia Ferraris
Il mito di Orfeo e Euridice è fondativo della storia della cultura occidentale: pone una molteplicità di questioni che sono particolarmente significative dal punto di vista speculativo: la poesia, il canto, la ricerca, il limite, l’amore, la morte… il mito e il logos… D’altra parte la rilevanza strettamente filosofica del mito è già implicita nelle prime versioni più complete e dettagliate del mito stesso, che risalgono a Virgilio, nel IV libro delle “Georgiche”, e a Ovidio, nel X libro delle”Metamorfosi”. Dice Virgilio: “Quando un’improvvisa follia colse l’incauto amante, perdonabile invero se i Mani sapessero perdonare: si fermò, e proprio sulla soglia della luce…” Accresce il pathos. E si volse a guardare la sua diletta Euridice. La trasgressione del patto stipulato con Plutone e Proserpina è compiuta, e la prima immediata reazione è della stessa Euridice che -rivolgendosi a Orfeo – esclama: “Chi ha perduto me, sventurata, e te Orfeo? Quale grande follia?”. Che cosa induce Orfeo a un gesto di ‘furor’, di ‘subita dementia’, di insania? Il patto-non voltarsi- era davvero così facile, elementare da rispettare? Si chiede a Orfeo amante di non guardare l’amata, si chiede a Orfeo di amare senza conoscere. Ma la scissione di amore e conoscenza non è possibile: è appunto questo il paradosso che segna anche l’esito tragico, l’ epilogo di questo viaggio. L’aveva capito benissimo il grande C. Miloz che nella sua Orfeo e Euridice scrive, facendo luce sull’anima di Orfeo dopo la perdita definitiva:“Ma l’erba profumava, ronzavano basse le api./E si addormentò, con la guancia sulla tiepida terra.” Altre interpretazioni e risposte saranno significative, come quella di C. Pavese: Orfeo pensava a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? …Allora disse ‘sia finita’ e si voltò’. Qui c’è valutazione razionale: c’è sospetto, debolezza, timore, rifiuto. Un calcolo consapevole. Una consapevolezza come quella di cui ci parla Rainer Maria Rilke. Euridice risale…” Raccolta in sè e come trasognata,/ non pensava a colui che le era innanzi,/ nè alla strada su verso la vita. Era raccolta in sè, e la impregnava/ il suo stato di morte. .. Ella era già radice.” E Orfeo capì e si voltò. E quando all’improvviso/ il dio la fermò e con dolore/ pronunciò le parole: Si è voltato!-, lei non comprese e disse piano: Chi?. Orfeo è uscito dal mito. “Chi ha perduto me, sventurata, e te Orfeo?” L’inferno è il mondo del fuori, del suono, del rumore, della superficie, contro cui i nostri sforzi nulla hanno valso, e che ci ha derubato dei sogni, dell’amore, della vita. Gli dei del fuori e dell’aria rarefatta hanno dato tutto quello che potevano dare, ed è chiaro che non basta. Ecco perché è eterno il mito di Orfeo ed Euridice.

Giulia Bagnoli
Orfeo ha osato sfidare la morte e la sua mancanza di fiducia è l’inizio della dannazione. Euridice rimarrà per sempre lì, nell’ombra, forse desiderando di nuovo la luce, la vita, ma senza ricordi. La morte vera è proprio nell’assenza di memoria.

Aretusa Obliviosa
All’orecchio di chiunque ami c’è una parola, in questa lirica, che suona terribile, scandalosa, intollerabile, ed è quel “chi” posto a fine di verso nella versione italiana (non conosco il tedesco, purtroppo), oltre il quale sembra calare il gelo assieme al silenzio. A nulla valgono i versi precedenti: nonostante Euridice venga descritta ormai come una entità lieve, che non ha più niente di umano, aldilà della soglia della vita per essere con la morte, il mancato riconoscimento di Orfeo risulta inevitabilmente inaccettabile per il lettore che con lo stesso amante si identifichi. E in effetti non altro che senso di morte e sgomento prova in cuor suo ogni persona che amando si senta improvvisamente rifiutata. Rilke riesce con il suo genio e la sua ispirazione a dire tutto questo e molto di più. Basti pensare al continuo oscillare fra vita e morte, centrale in questa lirica così come nella poetica stessa dell’autore e alla serie di antinomie che ne scaturiscono: la gravità contro la levità, l’impazienza contro l’incerta mitezza, la percezione dei sensi contro l’intangibilità. La visione rilkiana dell’aldilà e più in generale dell’ignoto che da qui scaturisce mi pare in conclusione del tutto negativa: se è all’insegna della mitezza per un’ancora inconsapevole Euridice appena iniziata alla dimensione della morte, per il lettore essa risulta indissolubilmente legata all’arcano, al tenebroso, a scenari spettrali connotati da vuoti abissi e dall’assenza di ogni nota di colore, fatta eccezione per un onnipresente grigio che tuttalpiù finisce con lo sbiancare in una tavolozza monocromatica sempre più scialba. Eppure ancora molto resterebbe da dire, a proposito, per esempio, di una poesia che, seppur modernissima, sembra voler recuperare nell’essenzialità e purezza lessicale la primigenia dimensione epica dell’oralità. Ma è un’epica quella rilkiana scevra di valori da proporre o da insegnare, connotata piuttosto da un senso di angoscia che sembra permeare ogni molecola dell’esistente ed aleggiare ovunque, fino a divenire, almeno per me, indiscussa novecentesca protagonista in molte pagine dell’autore.
Ma mi rendo conto che potrei continuare a spendere parole e che Rilke resterebbe comunque molto più di quanto detto.

Laura Diafani
Che bella la reinterpretazione, rovesciata in fondo, del mito: l’esser riportata alla vita come un male non ambito, la morte come condizione “intatta”, “vergine” (vengono in mente gli aggettivi che tributa Leopardi alla luna nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”), “lieve”.

framo
Assieme al ritrarsi fatale sia di Euridice (resasi irreversibilmente “intangibile”) sia di Orfeo (fattosi “scuro”, “irriconoscibile” e immobile) a cosa approda questa mirabile full immersion nell’esperienza straniante della perdita irrevocabile (di sè, del mondo conosciuto ed esperito, dei suoi elementi più consueti e condivisi)? Come sempre in Rilke il percorso si fa meta. In un processo di continua metamorfosi – in cui mondi, soggetto, oggetto e attributi compenetrandosi si “sfigurano” e sfigurano -, dalla soglia dell'”uscita chiara” di questo viaggio al cuore della tragedia, non più impaziente, fa ingresso lo sguardo del postOrfeo rilkiano, reso ormai “mite” dal passo turbato della morte; e con esso un modello insuperabile di poesia che, esortando a “mescolare (i morti) a ogni cosa veduta”, riesce a “rendere vero” l’incanto di ogni immagine creata e/o ricreata (Dai “Sonetti a Orfeo” – I,6). A novant’anni dalla morte, Rilke, incontrovertibilmente il più grande. Grazie.


Virgilio in primis e poi autori come Pavese, Vecchioni si sono soffermati sullo sguardo di Orfeo e sul perché si sia voltato, pur sapendo a quale conseguenza sarebbe andato incontro. Rilke, invece, offre una diversa prospettiva, quella di Euridice. La giovane sposa di Orfeo procede “incerta, mite e senza impazienza” la strada che porta “su verso la vita”. A differenza dell’uomo, Euridice non è di passaggio nella dimensione abissale degli Inferi, anzi, ormai ne fa concretamente parte, ne è “radice”. Non le interessa più tornare a vivere, ad amare perché la sua vita l’ha già vissuta. Per questo sembra non comprendere le parole di Ermes che le rivelano che Orfeo non ha mantenuto fede alla promessa e, quasi indifferente, anche lei si volta indietro per tornare eternamente nella “miniera delle anime”.

tristan51
Un altro capolavoro. Ma in Rilke il capolavoro non è una dimensione inattingibile o una rara eccellenza. La sua opera abbonda di capolavori, fa del capolavoro una regola.

Paolo Parrini
Quel che colpisce al cuore e resta dentro è l’enorme distanza che c’è tra Orfeo e Euridice, l’appartenere ormai a due piani si distanti e inconciliabili. La crepa tra l’uomo snello in manto azzurro e lei, Euridice che procede incerta ,mite e senza impazienza.La stessa calma che investe dopo la morte,quando tutto tace e i rumori della vita paiono solo echi lontani e incomprensibili. Quando Euridice chiede “chi?” rispondendo al Dio che le dice “si è voltato”, si avverte l’infinita voragine che c’è, da sempre, tra la vita e la morte, così attigue, così del tutto incomprensibili l’una all’altra fino al momento finale, che ognuno attende.

Lorenzo Dini
Il mito di Orfeo ed Euridice è rivissuto nel segno del sesso opposto, ed è attraverso la donna che Rilke  sublima quel confronto sul sottile limine fra la vita, amore e morte. Così, tanto risulta drammatico quel “Chi” pronunciato alle soglie dell’Ade, tanto maggiore risulta la distanza, ormai incolmabile, fra le “due cose belle”.

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