Firenze, 1 marzo 2017 – Trionfa tra i post del mese di febbraio quello di Aldo Palazzeschi dal titolo Buon compleanno Palazzeschi!, incentrato sulla sua celebre “Rio Bo”, che qui come al solito riproponiamo. Ben diciannove commenti cui ha fatto riscontro un numero altissimo di visualizzazioni sia nel blog, sia nelle due pagine Facebook ad esso collegate, a decretare in maniera eclatante e incontrovertibile il successo di uno tra gli autori più apprezzati da chi segue le nostre “Notizie”.

Al secondo  gradino del podio un altro post anniversario e un altro classico del nostro Novecento amatissimo da tutti noi: Giuseppe Ungaretti con Buon compleanno, Ungaretti! Bronzo, infine, un po’ a sorpresa (ma una sorpresa che ci rallegra, considerata la stima che nutriamo per questa sottovalutata figura del secondo Novecento italiano) per Margherita Guidacci, con il post incentrato su un suo componimento molto felice, di ispirazione dickinsoniana, dal titolo citazionale, ossimorico e suggestivo, L’acqua assetata. Margherita Guidacci.

Tra i vostri commenti la scelta stavolta è davvero difficile: ma ne scelgo tre, e in particolare quelli di m , Matteo Mazzone e Laura Diafani (che ringrazio per l’elogio, ma il commento è stato selezionato, naturalmente, non in base a questo!). Rispettivamente: “Il grande Aldo Palazzeschi è stato davvero una figura unica nel nostro Novecento: eppure ancora oggi la sua profonda originalità non è riconosciuta da tutti. La sua apparente leggerezza, da molti scambiata per giocosità fine a se stessa, funziona piuttosto in senso dissacratorio, come impulso destabilizzante per la società – e la psicologia – borghese. Un autore da rileggere e rimeditare, insomma, tenendo a mente quanto egli stesso confessò in una poesia tarda: ‘io non ho scherzato mai / pur dicendo di scherzare’. “; “Scrittore buffo, scrittore della luce: Palazzeschi si fa voce di quella nuova letteratura che già con le avanguardie ha visto modificare molti dei connotati del lirico, del tragico, dell’elegiaco tout court: sulla scia di Pascoli – che già in questo senso di rinnovamento ha dato spinte con composizioni eccezionali – Palazzeschi immette il registro comico, non sempre come gioco, come scherzo autodidattico ed autobiografico. Un comico aperto alla risata grassa, alla parodia – si pensi alla figura della Contessa Maria (alias l’autore) che rovescia la manzoniana monaca di Monza – all’osceno con gusto, al divertimento letterario: una letteratura abbassata ma nuova, concettualmente anti-borghese, al di là di ogni confine prestabilito del bel parlare e del bel comporre. Così nei romanzi come nelle poesie Palazzeschi è genio nell’osare e nel dirompere, nel liberare – dopo tanta ossequiosa letteratura dannunziana – il mondo delle proprie fantasie e nascondersi, anche da vecchio, dietro sotterfugi letterari e stilemi compositivi dichiaratamente biografici: si pensi almeno alla sua presa di coscienza riguardo la sua omosessualità, più volte denunciata nei testi poetici e in quelli prosastici: dal giovanile ‘:riflessi’, a ‘Due imperi mancati’ – dove, parallelamente all’esperienza della prima guerra mondiale, c’è posto anche per una riflessione generalmente filantropica sugli uomini, la quale si traduce anche in sensuali sguardi e sensuali carinerie che il giovane Palazzeschi rivolge ai compagni di guerra – al capolavoro confessionale ‘Interrogatorio alla Contessa Maria’, fino al terminale ‘Storia di un’amicizia’. Prototipo dell’intellettuale etico, ponte obbligatorio tra due secoli diametralmente opposti, un Palazzeschi mamma-chioccia – come ricorda lo squisito Paolo Poli – solo nella vita ma amato dai colleghi. In tal modo ha potuto smuovere la fossilizzata e moralistica letteratura fine-ottocentesca, per ridarne colore, vitalità, spumosità. Questo è stato, un diorama arcobaleno nel triste grigiore del suo tempo.”; “Che bella interpretazione, questa di Marco Marchi, nel segno di una irriverenza infantile dove “infantile” vuol dire occhio aperto e nuovo sul mondo, un vedere esplorativo non filtrato dagli schemi altrui. Anche in quella prosa memorialistica poi, che sembra zoppicare nel procedere per accumulo, accatastamenti un po’ boccacciani, ma poi torna sempre alla riva dopo averti fatto un giro sintattico inaspettato. Viene in mente il Leopardi di una famosa lettera a Giordani: ‘vedendo con eccessivo terrore che insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la vita per me e per tutti quelli che pensano e sentono; sicchè non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita’”.

Ma anche Isola Difederigo ha colto molto nel segno, quando con finezza ha scritto (e così i commenti trascelti diventano da tre quattro): “Un poeta ‘fanciullino’ che affida alla scrittura la sua superstite forma di innocenza: la consapevolezza di essere ‘un uomo molto leggero’. Dalla finestra di questa visione liberata e liberatoria Palazzeschi ha guardato il mondo, senza ideologie precostituite né mitologie d’appiglio, tutto assorto in se stesso, alla ricerca di una profondità che si sa tutta e solo in superficie; l’ha guardato e l’ha amato, nelle sue tenaci contraddizioni e nei suoi fulminei incanti, ‘per amore della vita’. Come in questo ispirato ‘idillio’ giustamente famoso, dove lo sguardo del poeta chiude in un abbraccio cielo e terra, e trova in questo la sua rima”.

Buon Palazzeschi a tutti con il suo paesello da favola!

Marco Marchi

Buon compleanno, Palazzeschi!

VEDI I VIDEO ‘Rio Bo’ letta da Vittorio Gassman , Miniantologia poetica: “Versi dalla casina di cristallo” , “I fiori” letta da Paolo Poli , “Lo sconosciuto”

Firenze, 2 febbraio 2017 – Ricordando che il 2 febbraio 1885 nasceva a Firenze Aldo Palazzeschi.

Da L’Incendiario – per via di occultamento, contraffazione, sostituzione e riadattamento nell’ambito di rinnovate esigenze espressive – ad una prosa autobiografica di tipo memoriale intitolata Incendiario; dal 1910 (al tempo cioè del futurismo e di Marinetti) al 1932 (negli anni del cosiddetto «ritorno all’ordine»).

A un avanguardistico, mostruoso e seducente Dio del fuoco, della trasgressione e dell’eversione, subentra nel sorridente ed antiavanguardistico Palazzeschi di Stampe dell’800 – reso irreperibile quel mostro – il più conciliativo ed accettabile ritratto di un bambino un po’ troppo vivace di appena tre anni che, da piccolo piromane in famiglia, da sculacciabile incendiario inconsapevole e davvero innocente, fa di una scatola di fiammiferi il suo strumento di affermazione personale, la sua protesta contro oppressive minestre da sorbire tra i confini di invalicabili finestre.

Analogamente, nel capitolo successivo del medesimo libro, allo stesso bambino fattosi solo un po’ più grande, di cinque anni, Palazzeschi memorialista affida l’avventurosa esplorazione dell’esterno, di zone fuori casa, di paesaggi naturali immensi popolati e pericolosi, da evitare. Oltre il divieto, contro il divieto: si affonda ancora nell’infanzia, in quella che un altro scrittore fiorentino, Bruno Cicognani, avrebbe chiamato l’«età favolosa». Veicolato da ricorrenti miniaturizzazioni metaforiche di contrasto (un cagnolino di contro all’elefante) o dagli stessi diminuitivi-vezzeggiativi grammaticali dialogicamente e monologicamente impiegati dalla Piramide del tipo «pollastrino» e «lodoletta» (al femminile, quest’ultimo, in seguito cassato, come in un’opera ora in disuso di Pietro Mascagni), il poeticizzato recupero dell’anelito libertario fuori casa trova ambientazione nelle domenicali Cascine dei Fiori della libertà.

Diffidare, con Palazzeschi, almeno dopo la celebre poesia lacerbiana del ‘13, di ogni genere di fiori e, insieme, di ogni genere di libertà: «Mentre però nei miei cresceva la sicurezza di quel fatto consueto, cresceva in me un desiderio vago di andare un po’ più avanti, dove non arrivavano quegli occhi dai quali mi sentivo tenuto come da un filo: romper quel filo senza saper perché. […] Andavo lungo le siepi alte, fra i grandi tronchi tortuosi, nelle radure o nel folto, levando le gambe fra lo sterpame del basso bosco, fra l’erbe umide, su cui mi piegavo di tanto in tanto per cogliere una pervinca […]. Dove andavo? Senza mèta, senza idea, senza invito… […] Senza paura del buio che veniva, delle ombre che sarebbero discese solenni dalle piante per inghiottirmi, né del vuoto che si faceva intorno in tutto il parco col grigior della sera; senza febbre d’avventura, senza tema e senza gioia; senza curarmi se potesse taluno notare la mia presenza solo in quel luogo e a quell’ora. […] la mia scappata era fine a se stessa: pura».

La «scappatella», insomma, come le esili pervinche raccolte, color del cielo, da piccolo Perelà che, anche chinandosi per fare un mazzolino, guarda in alto, alla sua patria: da ispirato e incurante Cristo fanciullo allontanatosi per fare le cose del Padre suo. Ma ecco, proprio «ad uno svolto», «nella bella foresta artificiale che si chiama “Le Cascine”», «sul luogo del misfatto» e della «colpa», l’incontro: una violenta, sconcertante, traumatica apparizione – mutatis mutandis nel nome di Freud – da Piramide, con un bambino sorpreso, sconcertato, «incapace di prendere l’iniziativa di un passo», «in balìa di quella foga», «incalzato, sbattuto, stiracchiato giù giù per il viale»: «Qualche cosa di enorme mi fu addosso, me ne sentii acciuffato e coperto, sepolto; e senza più distinguere intorno, da un diluvio di colpi percosso, e sopra sotto e dappertutto. Trafelato, gocciolante di sudore mio padre […] mi aveva ritrovato e m’era sopra combattuto tra la felicità di riavermi intatto e di sentirmi suo dopo chi sa quale angoscioso fantasticare, e il bisogno di ripagarsi su me della pena che gli avevo fatto soffrire, facendomi soffrire».

Non il «male», dunque (il cattolico peccato o la «macchia che l’acqua non lava» di un’antica poesia di Lanterna), ma la «purezza», ad avere sollecitato quegli esplorativi e disubbidienti movimenti di fuoriuscita da regole imposte, quegli inspiegabili, misteriosi e suggestivi allontanamenti dall’incipiente sociale e esistenziale conosciuto e ritenuto insufficiente, estraneo, quei lirici primi passi di ricerca dell’io che di infantile màrchiano – per tracce indelebili di uno scandalo che anche così si rivela e di continuo si aggiorna – immaginario, visioni del mondo ed onomastica: Aldino, Valentino, l’omino di fumo, Zeffirino, Giacomino «boccino di rosa», Celestino, Stefanino che di rosa ha perfino la sua coperta di lana di trovatello…

Tutto si fa piccino, proprio come nel minuscolo paese dell’anima cantato in Rio Bo. «E ritornando nel mio bel castello – come si legge nella splendida La mano – / temere d’incontrare / gli sguardi famigliari, / perché possono capire i miei cari / dove sono stato! / Certamente Cherubina ormai à capito, / mi guarda senza dirmi nulla / al mio ritorno, e pensa: / che cattivo marito! / E Stellina, e Cometuzza, / mi guardano con occhio pio pio, / che mi dice assai bene: / dove sei stato, / fratellino mio?». Un castello da lillipuziano e osceno bestiario dell’intimità familiare pronto a farsi solitaria piramide da figurina Talmone o, come in Interrogatorio della Contessa Maria, maliziosa «cameretta» erotica per sottovalutati bambini «piscioni»: bambini in «vestina» e «calzoncini», pretestuosamente alla ricerca su un atlante di isole piccolissime.

Marco Marchi

Rio Bo

Tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: Rio Bo,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però…
c’è sempre disopra una stella,
una grande, magnifica stella,
che a un dipresso…
occhieggia con la punta del cipresso
di Rio Bo.
Una stella innamorata?
Chi sa
se nemmeno ce l’ha
una grande città.

Aldo Palazzeschi 

(da Poemi, 1909, poi in Poesie)

I VOSTRI COMMENTI

tristan51
Un esempio preclaro di miniaturismo palazzeschiano, tra favola e profondo, gioco scandalosamente divertito e rivelazione di sé. Grande Palazzeschi: sempre geniale, sempre attuale, mai innocuo! Che cosa sarebbe il Novecento italiano senza di te?

cesare
Tutto è piccolo e minuto in questi pochissimi versi di Palazzeschi. Le casettine, il praticello, un esiguo ruscello, il microscopico paese. Di grande solo una stella speciale, che illumina il paesino, da fare invidia ad una grande città. In ciò l’amore per un piccolo borgo, dal nome dell’esiguo rio che lo attraversa. Una miniatura graziosa, dall’aspetto vezzeggiativo della poesia del Poeta.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
Che incanto questo “Rio Bo”! La magia dei versi liberi di Palazzeschi ci proietta in un paese da favola direi “a suon di musica”: a riprova della cantabilità del verso palazzeschiano possiamo del resto ricordare che alcune delle sue poesie più famose furono musicate e tra queste proprio “Rio Bo”, musicata da Agide Tedoldi nel 1937 per Ricordi. Musica, poesia, favola, ma soprattutto la limpida ironia di Aldo Giurliani, non per nulla fiorentino e legato alla tradizione toscana! Quello dell’ironia è uno strumento difficile, solo un grande scrittore come Palazzeschi poteva utilizzarlo in modo così vario, incisivo, corrosivo e nello stesso tempo divertente e funambolico, nel corso della sua abbondante produzione letteraria. E se riflettiamo sul significato originario di ‘finzione’della parola ironia, di origine greca, capiamo meglio come Palazzeschi, utilizzando al meglio le sue doti e la sua verve, abbia scelto di utilizzare proprio quest’arma per criticare dal di dentro e con grande efficacia quel mondo borghese a cui apparteneva.

m
Il grande Aldo Palazzeschi è stato davvero una figura unica nel nostro Novecento: eppure ancora oggi la sua profonda originalità non è riconosciuta da tutti. La sua apparente leggerezza, da molti scambiata per giocosità fine a se stessa, funziona piuttosto in senso dissacratorio, come impulso destabilizzante per la società – e la psicologia – borghese. Un autore da rileggere e rimeditare, insomma, tenendo a mente quanto egli stesso confessò in una poesia tarda: “io non ho scherzato mai / pur dicendo di scherzare”.

Marco Capecchi
La modernità di un poeta che può essere letto a più livelli. Incredibilmente consapevole del mondo in cui vive e a cui in fondo aderisce: dissimula onestamente e si fa apprezzare dalla beghina e dal dandy. Si, un poeta e scrittore unico nel panorama del ‘900.

JR Biagioli
Poeta del Fuoco, poeta che illumina le cose e ne svela il colore, in un mondo affetto da daltonismo emotivo. Rio Bo cela tantissimi colori e a me paiono evidenti il blu e il verde. Si scorge il verde del prato, un colore puro, e il blu del cielo scuro riflesso nel Rio, che non ha colore proprio e per questo è ancora più puro. Ecco, Palazzeschi ama proprio questa trasparenza del fosso. I grandi poeti vedono guizzi d’erba, vedono elementi fusi come metalli differenti, vedono un prato che come una trota fa cambiando di colore nel rigagnolo. Ma Palazzeschi, ingenuo e genuino, custodisce gli occhi di un bambino, che può cambiare come fossero occhiali. Bellissima la figura del cipresso che ondeggia e ogni tanto tocca con la punta, ma purtroppo solo in prospettiva, la stella occhieggiante. Sembra un mito greco.

Tania Montini
Palazzeschi, anche accostandosi ai movimenti contemporanei, ha sempre mostrato la sua individualità e una particolare originalità. I temi crepuscolari da lui ripresi , sono privi di languori eccessivi e anche se ne ricalca certe situazioni, sostituisce però lo scherzo al sospiro e contamina il tono elegiaco con la presa in giro, che conferisce alle sue liriche il carattere di divertimento.
La sua è una vocazione al gioco della fantasia e al riso, tracciando una sua personale filosofia di vita, dicendo che “bisogna abituarsi a ridere di tutto quello che di cui abitualmente si piange”, sviluppando la nostra più intima profondità.

Giulia Bagnoli
Un piccolo paese, ma con una magnifica stella da fare invidia ad una grande città. Una poesia che sembra un dipinto con pochi colori sbiaditi. Un inno alle piccole cose e alla purezza

Aretusa Obliviosa
Una cosa da nulla, un paese in miniatura, un mondo da cannocchiale rovesciato, così come a rovescio si presenta sempre, nella sua irriverenza, la poesia di Palazzeschi; quasi da perenne carnevale. Ma un carnevale dai toni, talvolta, un po’ dimessi, crepuscolari, direi. Ed è forse per questo che non ho mai potuto separare nel mio immaginario certi microscopici mondi cristallizzati palazzeschiani (siano essi attinti a “Rio Bo” o ad altri componimenti delle prime raccolte) dall’innocuo (?) roteante meccanismo di un vecchio carillon, da aggiungere anch’esso al catalogo delle piccole cose di pessimo gusto, in fondo. Saremmo dunque al cospetto di un oggetto non più significativo di un vecchio ritratto, di un impolverato souvenir… Se non fosse per quella stella, occhieggiante e magnifica, nonché simbolica, dietro la quale l’estro del nostro poeta una volta ancora si nasconde e ci fa uno sberleffo.

Matteo Mazzone
Scrittore buffo, scrittore della luce: Palazzeschi si fa voce di quella nuova letteratura che già con le avanguardie ha visto modificare molti dei connotati del lirico, del tragico, dell’elegiaco tout court: sulla scia di Pascoli – che già in questo senso di rinnovamento ha dato spinte con composizioni eccezionali – Palazzeschi immette il registro comico, non sempre come gioco, come scherzo autodidattico ed autobiografico. Un comico aperto alla risata grassa, alla parodia – si pensi alla figura della Contessa Maria (alias l’autore) che rovescia la manzoniana monaca di Monza – all’osceno con gusto, al divertimento letterario: una letteratura abbassata ma nuova, concettualmente anti-borghese, al di là di ogni confine prestabilito del bel parlare e del bel comporre. Così nei romanzi come nelle poesie Palazzeschi è genio nell’osare e nel dirompere, nel liberare – dopo tanta ossequiosa letteratura dannunziana – il mondo delle proprie fantasie e nascondersi, anche da vecchio, dietro sotterfugi letterari e stilemi compositivi dichiaratamente biografici: si pensi almeno alla sua presa di coscienza riguardo la sua omosessualità, più volte denunciata nei testi poetici e in quelli prosastici: dal giovanile “:riflessi”, a “Due imperi mancanti” – dove, parallelamente all’esperienza della prima guerra mondiale, c’è posto anche per una riflessione generalmente filantropica sugli uomini, la quale si traduce anche in sensuali sguardi e sensuali carinerie che il giovane Palazzeschi rivolge ai compagni di guerra – al capolavoro confessionale “Interrogatorio alla Contessa Maria”, fino al terminale “Storia di un’amicizia”. Prototipo dell’intellettuale etico, ponte obbligatorio tra due secoli diametralmente opposti, un Palazzeschi mamma-chioccia – come ricorda lo squisito Paolo Poli – solo nella vita ma amato dai colleghi. In tal modo ha potuto smuovere la fossilizzata e moralistica letteratura fine-ottocentesca, per ridarne colore, vitalità, spumosità. Questo è stato, un diorama arcobaleno nel triste grigiore del suo tempo.

Daniela Del Monaco
Rio Bo è un silenzioso e tranquillo paese immerso in un’atmosfera quasi fiabesca, con poche case, un prato verde e un piccolo ruscello. Spicca soltanto un alto cipresso, qui non a simboleggiare qualcosa di cupo, anzi, raffigurato come una sentinella che sorveglia amorevolmente il villaggio.
Questo “paese da nulla”, talmente piccolo da risultare quasi invisibile, ha un privilegio che nemmeno una grande città può vantare: vi è sempre sopra una stella che brilla instancabile e che maliziosamente, ogni sera, si lascia accarezzare dalla punta del cipresso. Rio Bo, dunque, è tutt’altro che insignificante: rivela, a chi sa osservarlo con attenzione, un incanto misterioso.

Chiara Scidone
Sono particolarmente affezionata a Palazzeschi. Ho conosciuto e letto alcuni dei suoi romanzi facendo un esame per l’università. Uno scrittore, una personalità unica, divertente e originale, una perla del novecento italiano. La mia poesia preferita è “i fiori” immorale ma in chiave comica, la trovo geniale. Non solo un grande poeta ma anche un bravissimo scrittore. Avendo letto alcuni suoi romanzi posso dire che in ogni sua opera c’è un pezzo di sé, un qualcosa di autobiografico, a partire da riflessi, fino all’ interrogatorio della contessa Maria, meno conosciuto ma uno dei miei favoriti. Mi auguro che altre persone, che come me, non lo conoscevano, possano venirne a conoscenza e appassionarsi. E infine come poteva non piacermi un autore che ha pubblicato le prime opere con editore Cesare Blanc ( il suo gatto 🙂 ). Buon compleanno Palazzeschi!

Laura Diafani
Che bella interpretazione, questa di Marco Marchi, nel segno di una irriverenza infantile dove “infantile” vuol dire occhio aperto e nuovo sul mondo, un vedere esplorativo non filtrato dagli schemi altrui. Anche in quella prosa memorialistica poi, che sembra zoppicare nel procedere per accumulo, accatastamenti un po’ boccacciani, ma poi torna sempre alla riva dopo averti fatto un giro sintattico inaspettato. Viene in mente il Leopardi di una famosa lettera a Giordani: “vedendo con eccessivo terrore che insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la vita per me e per tutti quelli che pensano e sentono; sicchè non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita”.

Finizio Simona
Già dall’inizio della poesia si percepisce un paese minuto (tre casettine, verde praticello, piccolo ruscello) che però viene contrapposto con la grandezza del cipresso. Cipresso che ha anche una certa importanza in quel piccolo paese. Il villaggio in questione, secondo l’autore, è insignificante, però il cielo che lo sovrasta è stellato ed una stella in particolar modo è grande e luminosa. La stella in questa poesia è simbolo di portatrice di fortuna e di buon umore e oltretutto ha una tale importanza in quanto, secondo Palazzeschi, neanche una grande città, ne possiede una simile. Il paesino “Rio Bo” si può contrapporre alla cameretta provocante della Contessa Maria. L'”Interrogatorio della contessa Maria” viene riportato come una dualità conflittuale, un’amicizia complice, un confronto inesauribile; in un qual senso come riportato in minori termini nella poesia “Rio Bo”.

Sabina C.
Una deliziosa ‘semplicità’ attraversa questo ‘quadretto’, che si nutre di meraviglia e giocoso, fanciullesco stupore. Occhieggia la stella che veglia, rendendo l’atmosfera ancor più evanescente e magica. È un accattivante invito a tuffarsi e immergersi piacevolmente nell’immaginifico mondo della fantasia … senza riserve, con lo slancio ‘incosciente’ di chi osa sfidare l’ingombrante, conformista peso delle asfittiche convenzioni.

Isola Difederigo
Un poeta “fanciullino” che affida alla scrittura la sua superstite forma di innocenza: la consapevolezza di essere “un uomo molto leggero”. Dalla finestra di questa visione liberata e liberatoria Palazzeschi ha guardato il mondo, senza ideologie precostituite né mitologie d’appiglio, tutto assorto in se stesso, alla ricerca di una profondità che si sa tutta e solo in superficie; l’ha guardato e l’ha amato, nelle sue tenaci contraddizioni e nei suoi fulminei incanti, “per amore della vita”. Come in questo ispirato “idillio” giustamente famoso, dove lo sguardo del poeta chiude in un abbraccio cielo e terra, e trova in questo la sua rima.

Yumiko Nakajima
Nel “Rio Bo” si possono trovare i punti particolari di Palazzeschi, cioè la vista dall’alto (la stella magnifica) come sale in cielo l’uomo di fumo e come saliva sulla scaletta Palazzeschi stesso e anche la stella che illumina la città come il fuoco delle candele. E’ interessante fra la stella e delle case piccole, dell’esiguo fiume c’è un vigile cipresso.

Erika Olandese Volante
Buon compleanno, caro Palazzeschi! E grazie per la splendida magia delle tue parole, perché ad ogni rilettura la tua anima riecheggia e ci strizza l’occhio dalle pagine dei libri e da quelle, più contemporanee, del nostro blog… Un abbraccio e un mazzo di rose selvatiche, come volevi tu, quelle “che vanno col tempo”!

Lorenzo Dini
Crepuscolare sui generis, poi futurista sempre a modo suo, uomo del suo tempo e mai prigioniero di esso come ci ricorda Montale, Palazzeschi rappresenta la  voce irriducibile che si rifiuta di prendere disciplinatamente posto nella linea grave e lirica della nostra tradizione poetica italiana. E così, col rifiuto della Poesia con la P maiuscola, Palazzeschi nel suo mondo piccino piccino di “Rio Bo” si nasconde dietro all’astro con la solita smorfia beffarda del clown.

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