Firenze, 30 giugno 2017 – Vince per il mese di giugno un tandem meraviglioso come quello formato dalla creatura fantastica inventata da Carlo Collodi, Pinocchio, e il poeta pistoiese Giacomo Trinci. Grande Giacomo, nel cimentarsi con questa rivistazione in chiave modernissima (ma in terzine tra Pascoli e Dante) della storia del celebre burattino: rivisitazione abilmente bilanciata, con i calcoli spietatamente millesimali e con l’innocenza della vera poesia, fra interrogazione esigente del mondo e auscultazione spregiudicata del proprio io. Bravo veramente, il nostro Giacomo, che ha finito, tramite la sua rabdomantica sapienza di poeta ispirato e già in questo profondamente trasgressivo e rivelatore, con l’incantare un po’ tutti!

Al secondo posto del podio un altro fantastico tandem, quello Pound-Pasolini reso possibile da una celebre, importante intervista degli anni Sessanta. Che esempio di grande televisione, e che esempio prima ancora di grande cultura, all’insegna di quella poesia che, come ha reso possibile la riconciliazione di Ezra Pound con Walt Whitman, rende adesso possibile, dopo gli ideologici rifiuti iniziali di Pasolini, quella tra il poeta delle Ceneri di Gramsci e il poeta dei Cantos (Pound e Pasolini e Ancora Pound e Pasolini).  Al terzo posto un classico ottocentesco  da Parnaso selezionatissimo del calibro di Holderlin con uno dei suoi componimenti più rappresentativi e più straordinari (I cigni di Hölderlin).

Ed eccoci ai vostri commenti dedicati all’Autobiografia poetico-pinocchiesca di Giacomo Trinci. Fortemente imbarazzati nella scelta, dobbiamo sceglierne almeno quattro, in particolare quelli di m, Aretusa Obliviosa,  Isola Difederigo e Matteo Mazzone, che dicono rispettivamente, tra analisi critica e affettuoso afflato di amicizia: “Questo Pinocchio di Giacomo Trinci è da brividi: smagliante riprova che la poesia, cioè l’invenzione, non è morta. Invenzione ancora più stupefacente perché muove da un testo esistente e famoso, proprio come faceva la Divina Mimesis di Pasolini. C’è arte e c’è fantasia, lavor di lima e lampo di genio, ma non solo. Certo si tratta di un omaggio a Pinocchio (e a Dante), ma anche di un poema originale e tipicamente “trinciano”: sensibilissimo ma non estenuato, puro e intelligentemente impuro, oscuro e a sorpresa luminoso, magistralmente polito e colto, ma anche antipedantesco e toscanamente ruvido. Nell’editoria non c’è da sperare, evidentemente: ma è una vergogna che un libro così non sia in ogni libreria, curato e pubblicato come si deve. ‘Full many a flower is born to blush unseen, / And waste its sweetness on the desert air'”; “Straordinaria la capacità di portare rinnovata freschezza e vigore funambolico in una forma metrica tanto legata alla tradizione. Ma a pensarci bene, il pistoiese Trinci non solo per la misura metrica “gioca in casa”. Lo dimostra il suo essere poeta-burattino-saltimbanco, nel segno dissacrante e inconfondibile di un incendiario Palazzeschi, senza per questo rinnegare quell’elegantissimo impasto burlesco e ironico ereditato dalla bella lingua di Collodi e Giusti; infine la misteriosa presenza del fanciullino pascoliano, nient’affatto disposto a crescere e a rinunciare alla ludica musicalità del verso eppur consapevole di quell’oscuro senso di morte che il grillo ammonitore porta con sé. Insomma, Giacomo, rimani Pinocchio e sarai Poeta!”; “Qui Trinci appare un po’ Pinocchio e un po’ Grillo, se dietro quel grillo “parlante a vuoto” s’indovina il poeta che abita in lui, un poeta postumo, guardiano dei morti e testimone occhiuto della cattiva coscienza dei vivi. Anche nei fiabeschi giardini d’infanzia da lui amorosamente coltivati Trinci raccoglie il suoi fiori del male, muovendosi con passo lieve e sicuro, da equilibrista del profondo, tra verità e menzogna, in pianto e in riso”; “Giacomo saltimbanco, Giacomo serio, Giacomo uomo di vita e forse anche di pena, tutto abbandonato, suggestionato dalla propria dimensione ricca di fiabeschi accadimenti, di pinocchiane e magiche illusioni: è qui che il confine con la quotidianità posticcia viene inderogabilmente a rompersi. Così che le due sfere – reale e irreale – finiscono per contaminarsi: è difficile in Giacomo disambiguare, smembrare l’irreale sogno poetico dalla reale mondizia mondana. È il tema del posticcio, del quasi-fatto che lo rende poeta-fanciullo, meglio forse dire un fanciullino d’età adolescenziale, dolce quanto scontroso, frivolo quanto analitico. Tutto in Giacomo è ponderata calma poetica: il fulcro tematico delle sue liriche si concentra in una skomma finale, in un aculeus preparato sempre coscienziosamente dal suo grillo parlante. Voce estetica, canone comparativo e integrativo di un qualcosa in più, quel più che architettonicamente si oppone al geometrizzante mondo del niente, del non senso. Ti voglio bene Giacomo!”.

Buona lettura e buona rilettura, e buona estate a tutti!

Marco Marchi

Giacomo Trinci e Pinocchio

VEDI I VIDEO Giacomo Trinci e altri poeti a Castelfiorentino (2005) , Giacomo Trinci su Svevo, con sue poesie dedicate allo scrittore (2012) , Giacomo Trinci legge da “Inter nos” (da 5:00, 2013) , “La canzone di Pinocchio” di Roberto Benigni 

Firenze, 8 giugno 2017 – «C’era una volta un bel pezzo di legno, / di quelli da catasta che in inverno / uno sull’altro fanno un bel disegno». Così comincia la storia, che è quella del mitico personaggio del capolavoro per l’infanzia e per l’intera umanità di Collodi. Ma è un Pinocchio in versi, in endecasillabi, quello che Giacomo Trinci ha intitolato Autobiografia di un burattino e anni fa ha dato alle stampe sotto gli auspici congiunti della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e della Fondazione Collodi.

A quando – ci chiedevamo tempo fa e torniamo adesso a chiederci – un’edizione dell’opera stampata da un editore, commercializzata e regolarmente distribuita in libreria, alla portata di qualsiasi lettore interessato?

Tutti conoscono Pinocchio, ma non tutti sanno che Trinci – pistoiese, classe 1960 – è uno dei più interessanti poeti italiani d’oggi. I titoli del suo lavoro sono numerosi: a partire da Cella, la splendida opera prima del debutto, a Resto di me e Senza altro pensiero, passando per Voci dal sottosuolo e quella Telemachia che tanto affascinò Giovanni Raboni. E si aggiunga a queste raccolte, per il momento culminate in Inter nos (Premio Betocchi-Città di Firenze 2013),  una cospicua attività di traduttore, che spazia da Agrippa d’Aubigné e Suor Juana de la Cruz ad Adonis e alla poesia araba antica.

Trinci è un «metricista»: un poeta che nella metrica trova la possibilità di essere attuale, contemporaneo. Anche Pinocchio diventa per lui moderno e praticabile passando per questa scelta, la cui portata certo non si esaurisce nell’abusata categoria del postmoderno, tanto meno nel puro formalismo. Così, ad una prima parte dell’Autobiografia in terzine, fra Dante e Pascoli, fa riscontro, con analoga perizia rappresentativa e disvelante, una seconda in ottave, come nella nobile tradizione cavalleresca e nei cantari.

Né più né meno di come articola il racconto, la forma metrica scandisce poi il discorso autobiografico burattinesco, proponendo al lettore un Pinocchio sempre più estromesso dal pur instabile, ambiguo e slittante mondo dei sogni e dei fiabeschi accadimenti in cui si muove (tutti a valenza simbolica, ma non pedagogica come nell’ottocentesco Collodi), a favore di un realistico ingresso in quello che con Montale definiremo «il mondo degli adulti». Fine dell’infanzia, appunto, senza fate turchine e senza geppetti, senza illusioni e senza consolazioni, e invece con tante responsabilità cui dovere rispondere e tanti guai cui non dovere soccombere. Chi salverà Pinocchio? Chi ci salverà?

Marco Marchi

Da «Autobiografia di un burattino. Pinocchio in versi»

Canto  IV

La vita per Pinocchio è tutta salti
adesso, e corse, e campi, e verde mondo;
e non vedeva intorno che gli smalti

dei muri vecchi da saltare a fondo,
e i fossi, e i pruni tenerini e vivi,
e i greppi altissimi, che nel giocondo

tornado superava, là oltre i rivi.
Salta salta la vita, arrivi sempre
a casa, e dopo aver percorso privi

di peso campi e fossi torna sempre
la forza delle cose a farti suo.
Pinocchio spinge l’uscio come sempre,

entra e si butta in terra, e il fiato suo
rimbomba nella stanza ormai deserta;
mai dalla contentezza il fuoco tuo

hai sospirato, come quando certa
d’averla fatta in barba è la tua gioia;
che pure durò poco, perché esperta

di un’uggiosa pena, a furor di noia,
stanca e vecchia una voce di lontano
colpì del burattino il fil di gioia.

Monotona e sottile, piano piano,
sembra lo scricchiolare di una sedia,
se qui sedia vi fosse, e non un vano

arrampicare di fastosa inedia
per muri marci, trucioli, e corbelli;
– Crì-crì-crì! – come una stessa commedia,

sera qualcuno sui puntelli
recitava a se stesso, ed or Pinocchio
si voltò impaurito verso gli appelli strani:

– Chi è che mi chiama? –  Son io! –
ugrossgrillvide sulla crosta
del muro salir lentoacceso l’occhio

stanco come una lanterna indisposta
alla lucema chiara: – Sono il grillo
parlante a vuotoe tengo qunascosta

la coscienza dei morti, ogni cavillo
abbandonato e vivo da millanni. 
– Ora vorrai farmi dormir tranquillo! 

disse Pinocchio già dentro gli affanni;
– Questa stanza è la mia. Vattene dunque
– Per quanto sappigià che tu mi scanni 

disse il Grillo lontano – sappi dunque
l’acuto denso vero che è qui posto
e che ti metto avanti: da chiunque

sarai spinto a perdonarti, scomposto
di ragione ogni elemento, non avrai
che l’amaroil dolore ben disposto 

ai peccati del mondo! – Pinocchio mai
si era sentito cosi offeso in pieno,
e disse al Grillo– Pensa un po’ ai tuoi guai!

Io voglio i miemattini, lalba, il fieno
di ogni giornosregolarmi nei sensi,
partir da qui per sempre, dal terreno

piagato dal doveredamelensi
frutti delle scuole, perché mia scuola
è il vento, l’aria che mi porta ai densi

giochi delle farfallee la tua gola
secchi dell’aspro succo di tue note.
Il Grillo prese luce dalla stuoia

di sciocchezze che giravan le ruote
mentali di Pinocchiodisse allora:
– Povero grullo! Queste son carote

per tenerti ben schiavo, sotto prora
ad ogni padrone, come un somaro. 
– T’ammazzo, Grillo– gli gridava ancora

il burattino duro, e dentro il chiaro
lumeggiare del grillo si affannava
la morte e la saggezzacome un riparo

estremo: – Puoi trovar dentro la cava
di un mestiere, l’onore o il disonore,
fa lo stesso se catena t’inchiava. 

Pinocchio disse– Schiava del sudore
non sarà la mivita, ma soltanto
del mangiar, del dormire e dell’ amore. 

Dalla sua morte il Grillo n’ebbe un pianto:
– Ho pena assaper te, ché sei già vinto!-
Il burattino sente l’arma intanto

che gli monta da dentro il corpo finto:
– Bada, t’ammazzo– e già con il martello
spiaccicata ha la testa sullo stinto

muretto, ha sangue ed ali sul cervello.
Lo colse dopo averlo già ammazzato,
col suo crì-crì-crì, spiro di ogni uccello.

Lì sopra porimase appiccicato.

Giacomo Trinci 

(da Autobiografia di un burattino)

I VOSTRI COMMENTI

Non riesco a comprendere l’ostilità mostrata da certi intellettuali – o pseudo-tali – nei confronti dello strumento metrico. Dico strumento perché di questo si tratta, di una sorta di formattazione preliminare del testo, di uno schema scelto volontariamente, oggi che si può far poesia anche con versi liberi e sciolti. Semmai si può provare a indagare il motivo di una scelta che non è certo casuale da parte dei poeti – non pochi! – che ne fanno uso. A parte la congenialità del verso “metrico” alla sua poesia, penso che Trinci abbia operato questa scelta contro corrente con sottile ironia da contrappasso e, nello stesso tempo, con valore simbolico. Questo su Pinocchio è un poemetto che tra il serio e il faceto ci narra, con il metro della Divina Commedia, le avventure di un burattino, un pezzo di legno scanzonato e ribelle! E Trinci non si accontenta della terzina a rima incatenata ma, nella seconda parte, utilizza per la sua Pinocchieide anche l’ottava di cantari e poemi cavallereschi! Desiderio di variatio, ma non solo: se la scelta del metro sottolinea antiteticamente l’irrequieta incapacità del protagonista di entrare negli schemi preordinati che la vita ci impone fin dai primi anni, il cambiamento di passo, di ritmo, sottolinea la frattura insanabile tra mondo dell’infanzia e mondo degli adulti. E chi non riesce ad adeguarsi e a crescere è destinato a essere un inetto: ma qui sconfiniamo in un’altra pagina della ricca produzione poetica di Giacomo Trinci.

Duccio Mugnai
Accidenti, rime dantesche incatenate! Personalmente non riuscirei a cavar un ragno da un buco… Penso sia davvero un dono riuscir a poetare “metricamente”. Però, perché rendere una favola così bella soltanto materiale d’élite, per pochi adepti? E’ vero, Pinocchio è storia per grandi, non per bambini. Chi di noi è adulto e non bambino? Dovrei leggere per intero il testo di Trinci, perché è indiscutibile che, come dice il grillo parlante, chi non cresce è destinato all’infelicità sociale. In realtà, Collodi attacca violentemente un mondo borghese, fatto di benessere, che uccide la libertà del povero e il bisogno irresistibile di vivere la vita da parte della gente semplice. E’ proprio un birbante Pinocchio, o è piuttosto la società borghese ad essere ingiusta, crudele ed ipocrita? A chi si allunga il naso?

Maria Grazia Ferraris
Da “C’era una volta… ” di Collodi, che ho amato da bambina, a “Qui comincia, aprite l’occhio/l’avventura di Pinocchio” di Rodari, che ho amato da insegnante. E mi sembrava un bel percorso: dall’ironia verso il perbenismo borghese e l’ipocrisia- all’ironia “estetica-morale” del naso che s’allunga, sensibile alle bugie. Un contributo di rilettura dissacrante. Qui appare però una nuova voce, originale, espressa una miscela audace di materiale lessicale di diversa e lontana provenienza: la parola colta della tradizione letteraria in una reinterpretazione della favola “eterna”, che solo gli ingenui pensano sia una favola per bambini: quella in rima di G. Trinci, che da grande affabulatore ci racconta con felice sintesi , grande la cultura, raffinato canto il suo attaccamento ai temi popolari. “ Io voglio i miei mattini, l’alba, il fieno/ di ogni giorno, sregolarmi nei sensi, // partir da qui per sempre, dal terreno/ piagato dal dovere, dai melensi
frutti delle scuole, perché mia scuola/ è il vento, l’aria che mi porta ai densi/giochi delle farfalle…”. Ma il sogno di felicità e libertà anarchica è interrotto dal realismo del fastidioso grillo:
“Povero grullo! Queste son carote/ per tenerti ben schiavo, sotto prora/ ad ogni padrone, come un somaro”. E l’avvincente disputa finirà inevitabilmente come la favola prevede. Senza GRILLI parlanti e senza PADRI Geppetti. È questo il nostro desiderio più vero? Grazie a G. Trinci che sa cantare con melodica persuasione e umorismo avvincente.

Matteo Mazzone
Giacomo saltimbanco, Giacomo serio, Giacomo uomo di vita e forse anche di pena, tutto abbandonato, suggestionato dalla propria dimensione ricca di fiabeschi accadimenti, di pinocchiane e magiche illusioni: è qui che il confine con la quotidianità posticcia viene inderogabilmente a rompersi. Così che le due sfere – reale e irreale – finiscono per contaminarsi: è difficile in Giacomo disambiguare, smembrare l’irreale sogno poetico dalla reale mondizia mondana. È il tema del posticcio, del quasi-fatto che lo rende poeta-fanciullo, meglio forse dire un fanciullino d’età adolescenziale, dolce quanto scontroso, frivolo quanto analitico. Tutto in Giacomo è ponderata calma poetica: il fulcro tematico delle sue liriche si concentra in una skomma finale, in un aculeus preparato sempre coscienziosamente dal suo grillo parlante. Voce estetica, canone comparativo e integrativo di un qualcosa in più, quel più che architettonicamente si oppone al geometrizzante mondo del niente, del non senso. Ti voglio bene Giacomo!

Maria Antonietta Rauti
Entusiasmante creatività metrica che cattura il lettore. Un passo letterario importante quello di Collodi, parafrasato, in versi da Trinci… Lettura originale, compresa, vissuta con la criticità conoscitiva di un poeta contemporaneo, cresciuto, quasi sicuramente, tra le fantasie bugiarde di Pinocchio.
Forse tra le poesie dell’oggi lette, questa si rivela, per me, essere una delle scritture più belle, ove il simbolo diventa verso attraversando l’immaginazione, diventata matura, di un bambino. Emozione candida, pulita, sofferta di un burattino duro.

Marco Capecchi

Bellissima.

ramo
Dei versi di un poeta inconsapevolmente il lettore finisce con l’isolare ciò che lo fa vibrare, direi cio’ che più gli sta a cuore; entro questa felice “riappropriazione” in chiave collodiana del rapporto dell’uomo con la propria coscienza oggi mi trovo a ritagliare questi versi: “Salta salta la vita, arrivi sempre a casa / e dopo aver percorso privi / di peso campi e fossi torna sempre / la forza delle cose a farti suo”. Non illudiamoci – Pinocchio e/o grilli – la fine sta nelle cose!

Sabina C.
… E chi salverà, chi, questostraordinario poeta- fanciullo, questo riservato ma ingenuamente intrepido monello? Chi salverà la sua vocina scaltra, acuta, sferzante, giocosa, la sua capacità di poetar cantando, di cantare poetando, come pochi sanno… Saltella, gioca, stupisce… poi si ferma, ogni tanto, più per dovere che per convinzione… ma le briglie son sciolte, e i suoi capricci lo rendono capace di una pensosa leggerezza che ci fa volare alto, lievi, pensanti, a lui immensamente grati. Grazie, Giacomo!

Isola Difederigo
Qui Trinci appare un po’ Pinocchio e un po’ Grillo, se dietro quel grillo “parlante a vuoto” s’indovina il poeta che abita in lui, un poeta postumo, guardiano dei morti e testimone occhiuto della cattiva coscienza dei vivi. Anche nei fiabeschi giardini d’infanzia da lui amorosamente coltivati Trinci raccoglie il suoi fiori del male, muovendosi con passo lieve e sicuro, da equilibrista del profondo, tra verità e menzogna, in pianto e in riso.

m
Questo Pinocchio di Giacomo Trinci è da brividi: smagliante riprova che la poesia, cioè l’invenzione, non è morta. Invenzione ancora più stupefacente perché muove da un testo esistente e famoso, proprio come faceva la Divina Mimesis di Pasolini. C’è arte e c’è fantasia, lavor di lima e lampo di genio, ma non solo. Certo si tratta di un omaggio a Pinocchio (e a Dante), ma anche di un poema originale e tipicamente “trinciano”: sensibilissimo ma non estenuato, puro e intelligentemente impuro, oscuro e a sorpresa luminoso, magistralmente polito e colto, ma anche antipedantesco e toscanamente ruvido. Nell’editoria non c’è da sperare, evidentemente: ma è una vergogna che un libro così non sia in ogni libreria, curato e pubblicato come si deve. “Full many a flower is born to blush unseen, / And waste its sweetness on the desert air”.

Aretusa Obliviosa
Straordinaria la capacità di portare rinnovata freschezza e vigore funambolico in una forma metrica tanto legata alla tradizione. Ma a pensarci bene, il pistoiese Trinci non solo per la misura metrica “gioca in casa”. Lo dimostra il suo essere poeta-burattino-saltimbanco, nel segno dissacrante e inconfondibile di un incendiario Palazzeschi, senza per questo rinnegare quell’elegantissimo impasto burlesco e ironico ereditato dalla bella lingua di Collodi e Giusti; infine la misteriosa presenza del fanciullino pascoliano, nient’affatto disposto a crescere e a rinunciare alla ludica musicalità del verso eppur consapevole di quell’oscuro senso di morte che il grillo ammonitore porta con sé. Insomma, Giacomo, rimani Pinocchio e sarai Poeta!

tristan51
Concordo pienamente con m, sia per quanto riguarda l’eccellenza permanente dei risultati di Trinci, sia sulla scandalosa gestione di una editoria nazionale che non premia di regola la poesia, ma in questo caso, raddoppiando il disastro, neanche il meglio che la poesia offre. Concordo anche sulla sincerità confessionale che, per essere tale, necesita di filtri, di mediazioni.

Anonimo
Entusiasmante creatività metrica che cattura il lettore. Un passo letterario importante quello di Collodi, parafrasato, in versi da Trinci… Lettura originale, compresa, vissuta con la criticità conoscitiva di un poeta contemporaneo, cresciuto, quasi sicuramente, tra le fantasie bugiarde di Pinocchio. Forse tra le poesie dell’oggi lette, questa si rivela, per me, essere una delle scritture più belle, ove il simbolo diventa verso attraversando l’immaginazione, diventata matura, di un bambino. Emozione candida, pulita, sofferta di un burattino duro.

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