31 agosto 2017 – Un’ardua competizione, quella delle nostre Notizie di poesia del mese di agosto, con un podio con quattro presenze e distacchi davvero minimi tra le posizioni quali alla fine si sono profilate. Al gradino più alto troviamo Cesare Pavese con il post dedicato all’anniversario della sua tragica scomparsa Pavese, la morte e gli occhi. Al secondo posto le bellissime quartine di Maiolica dipinta firmate da Federigo Tozzi in veste di poeta, autore di una raccolta ricca di significativi testi in versi quanto poco conosciuta fuori dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori come Specchi d’acqua (Il cuore precipitato. Tozzi poeta). Bronzo pari merito spartito tra Elsa Morante (Tu eri natura. Elsa Morante per Pasolini) e Aldo Palazzeschi (Anniversario Palazzeschi 1974-2017). Noteremo soltanto, commentando brevemente questo ex aequo, che al piazzamento al terzo posto della Morante ha contribuito senz’altro  il tema pasoliniamo del testo presentato, che però resta di per sè un testo straordinario, per forza espressiva e prima ancora per assoluta sensibilità di penetrazione psicologica. Onore a Pasolini, dunque, ma anche ad una grande scrittrice come Elsa Morante, che di lui è stata un’amica così intelligente e attenta.

Ed eccoci ai vostri commenti. Tra quelli del mese, occasionati da Pavese e dalla sua celebre Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, segnaliamo quelli di Elisabetta Biondi della Sdriscia, framo e Giulia Bagnoli. Rispettivamente: “La scelta di Pavese di rinviare attraverso il suo testamento poetico e umano a una linea di poesia che attraversa idealmente tutta la letteratura italiana dallo Stilnovo a Leopardi appare estremamente significativa: è l’ammissione di una rinuncia, di una sconfitta, dell’impossibilità di sfuggire alla morte che accompagna ogni istante della nostra esistenza attraverso una scrittura nuova, anzi attraverso la scrittura tout court. Della vita e delle illusioni che l’hanno alimentata restano gli occhi: uno sguardo, non parole, e se la morte appariva all’inizio un vizio assurdo, alla fine anche la vita si rivela tale. Pavese ci ha detto addio con una poesia bellissima attraverso la quale è riuscito a farci pervenire, nonostante tutto, la sua voce tra tradizione e straordinaria modernità”; “‘In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito comincia lo smarrimento della distanza …’ (da Feria d’agosto, opera che amo). E ‘lo smarrimento della distanza’ – da un mondo emotivo ed affettivo, reale e mitico, ormai irreparabilmente dissolto – è proprio ciò che avverto leggendo l’immenso Pavese. Quanto manca il tempo in cui, ‘quando ci lasciavamo, non ci pareva di separarci, ma di andare ad attenderci altrove’, quando, nella perdita, era percepibile anche la via che riporta all’origine. Grandissimo Pavese”; “Morire è come smettere un vizio: il vizio della vita – e della scrittura che ad essa si sostituisce. Non ci sono occhi di donna a consolarci dinanzi al gorgo, né parole in grado di dare un senso all’esistenza: non possiamo infatti far altro che scendere muti e soli. L’incapacità di comunicare è un tema cardine della poesia del Novecento, ma è anche un tema esistenziale, come ricorda Pavese in un appunto del Diario: ‘tutto problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri'”.

Ma bello anche il commento giunto all’ultimo tuffo di Matteo Mazzone: “La devastazione è la sensazione principale che dilania l’animo di Pavese: una consapevolezza, sempre più crescente e sempre più dolorosa, di una ‘vita non vita’. Dapprima, dunque, una meditazione che si fa accecante parola scritta, sudata macchia di sangue, fino alla risolutezza cruda ed acerba: il nuovo obbiettivo è il raggiungimento del ‘gorgo del nulla’, infelicemente cantato anche dall’ultimo d’Annunzio, in cui l’uomo si riduce ad essere ‘il cane del suo nulla’. Ma per Pavese l’uomo non sminuisce alla maniera dannunziana: trasumana insofferente, s’allieva di ogni dolore vissuto o da vivere, si fa abbracciare dal caldo ed amichevole soffio di una morte che si presenta come una domestica ed inscindibile compagnia. Rimane solo desolazione, estrema indifferenza per il proprio io, sicura voglia di morire”.

Buona lettura e rilettura del post vincitore, ma anche di quelli dedicati a Tozzi, Palazzeschi ed Elsa Morante! E buon inizio del mese di settembre con un nuovo post, domani!

Marco Marchi

Pavese, la morte e gli occhi

VEDI I VIDEO “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” letta da Vittorio Gassman , Profilo di Cesare Pavese , Da “Il mestiere di vivere” , Pavese secondo Milly, “Gente che non capisce”

Firenze, 27 agosto 2017 – Della maturità, una categoria psicologica, Cesare Pavese aveva fatto un mito, un onnicomprensivo traguardo da raggiungere; a tre parole tratte dal King Lear di Shakespeare aveva affidato quell’obbiettivo, il significato persistente di un esempio: «Ripeness is all», la maturità è tutto.

Fu questo il mito che costò all’uomo Pavese l’esperienza amara del confino e finanche il gesto incontrovertibile e risolutivo del suicidio (a Torino, il 27 agosto 1950). Ma fu questo il mito che alimentò una produzione letteraria di prim’ordine sistematicamente impostata all’insegna della coerenza, della necessità dialettica più ferma ed implacabile: della crescita.

«Ho la certezza – scrisse Pavese quattro anni prima di morire – di una fondamentale e duratura unità di tutto quanto ho scritto o scriverò». E Pavese, fin dalla raccolta di versi che segnò il suo debutto nell’agone letterario (Lavorare stanca, edita nel 1936 a Firenze da «Solaria»), coltivò quella «fondamentale e duratura unità» che consisteva in una ricerca del vero da effettuarsi tramite parole.

I temi essenziali attraverso i quali verrà svolgendosi il suo esercizio sono già, in Lavorare stanca, perfettamente enucleati: non rassicuranti certezze, ma opposizioni, conflitti; città e campagna, agire ed essere, maturità e infanzia. In Pavese conteranno più di quanto si sia stati finora disposti a credere gli episodi precoci di una formazione in cerca di maturità che, con singolare tempismo, propongono una fenomenologia divaricata, conflittuale, già in grado di costituire gli ingredienti-base di quella opposizione costante che verrà progressivamente definendosi come la poetica dell’autore, del narratore e del poeta. Alludo in particolare, semplificando, ai modelli pedagogici forniti sullo sfondo delle Langhe da una simbolica madre ad un orfano (un figlio già obbligato alle separazioni) e al magistero attivo, culturalmente e storicamente coniugato, di un prestigioso professore torinese, Augusto Monti.

Così Santo Stefano Belbo e Torino si emancipano presto in una scissa geografia dell’anima: dell’innocenza e della coscienza, del primordiale e dell’evoluto, della natura e della storia. Ache se il montaliano ingresso nel «mondo degli adulti» nelle liriche di Lavorare stanca si profila per il poeta come una volontarstica conquista dell’uomo, una poesia che vuol narrare apre strade da percorrere allo scrittore. Poesia-racconto, appunto, secondo una celebre dichiarazione dell’autore esordiente, rivolto senza remore all’esempio whitmaniano, Nasce la poesia di Pavese, e nasce, confortata dal riferimento culturale particolarmente ampio e di continuo incrementato, la sua narrativa: da Il carcerePaesi tuoiLa bella estateLa spiaggia, gli esiti maturi del dopopguerra: Il compagnoLa casa in collinaIl diavolo sulle colline, il bellissimo Tra donne soleLa luna e i falò, senza dimenticare le delucidazioni artistiche svolte in chiave mitico-antropologica e psicoanalitica dai Dialoghi con Leucò.

L’esercizio scrittorio di Pavese si lasciò in effetti pilotare solo da se stesso, riducendo a diacronia di soluzioni espressive (talvolta semplicemente giustapposte e così fatte reagire) insoddisfazioni e contraddizioni, bisogno partecipativo e sfiducia nelle collaborazioni al farsi della storia, autenticità dolorosa della solitudine e urgenza di appoggi, oscurità e chiarezza.

L’arte operò i suoi risarcimenti, consentendo risultati individui e resistenti. «Sulle colline il tempo non passa», si legge nei modi lapidari di una sentenza nel romanzo La luna e i falò. Pavese ritrova in questi termini la sua completezza, l’incalco meno imperfetto delle sue ambizioni, della propria immagine. «La passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la  verità demonica di piante, acque, rocce e paesi –  si legge del resto nel diario di Pavese alla data del 9 gennaio 1950 –  è un segno di timidezza, di fuga davanti ai doveri e agli impegni del mondo umano». Ma è proprio questo spietato rifuto dell’illusione –  di ogni illusione –  a sostanziare come una realtà già conseguita l’auspicio di cui l’epigrafe alla Luna e i falò si faceva portavoce: «Ripeness is all».

Alla maturità di un’opera che senza infingimenti e tergiversazioni aveva riconosciuto che «crescere vuol dire morire», Pavese era giunto attraverso la scrittura.

Marco Marchi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese

(da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)

I VOSTRI COMMENTI

Paolo Parrini
Quando lessi questa poesia dirompente nella sua drammatica intensità ero già adulto e vicino all’eta’ del poeta al tempo. Fu come un pugno allo stomaco e una carezza e il dolore di Pavese così palpabile fu il mio dolore e quello di ogni essere umano. Pavese scrisse dopo una delusione d’amore profonda ma il suo cammino in qualche modo pareva condurre a quelle parole e ai fatti tragici che ne seguirono quasi inevitabilmente. Amore morte e una solitudine quasi visibile e solida… gli ingredienti dolorosi del dramma suo e dell’uomo.

Maria Grazia Ferraris
“Lei è la poesia, nel più letterale dei sensi. Possibile che non l’abbia sentito?”, scriverà prima di darsi la morte. “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”: dieci testi (di cui due in lingua inglese): composti nella primavera del 1950. L’ associazione vista (occhi) e morte viene da lontano sia letterariamente ( si può far risalire addirittura allo Stilnovo, e ad esso P. sembra ritornare anche metricamente dopo il verso-lungo narrativo), sia nella sua storia poetica. In una pagina del Mestiere di vivere annota: “In fondo, in fondo, non ho colto questa straordinaria avventura, questa cosa insperata e fascinosa, per ributtarmi al mio vecchio pensiero, alla mia antica tentazione – per avere un pretesto per ripensarci…? Amore e morte – questo è un archetipo ancestrale”. La fine di un amore. L’ ossessione tematica. Ed ancora: “Avere scritto qualcosa che ti lascia come un fucile sparato, ancora scosso e riarso, vuotato di tutto te stesso, ma quello che sospetti e supponi, e i sussulti, i fantasmi, l’inconscio… accorgersi che tutto questo è come nulla se un segno umano, una parola, una presenza non lo accoglie, lo scalda- e morir di freddo- parlare al deserto- …. Certo in lei non c’è soltanto lei, ma tutta la mia vita passata, la inconsapevole preparazione -l’America, il ritegno ascetico, l’insofferenza delle piccole cose, il mio mestiere”.

Ilaria 77
Tutta l’inquietudine di Pavese si ritrova in questi celebri versi, il connubio indissolubile tra amore e morte rispecchia direttamente la smania dell’uomo verso la vita e il rinnegamento di quegli obblighi che la vita stessa ci mette davanti. Tutto ha un risvolto tragico, il rovescio della vita è la morte, così come la grandiosità e la bellezza estrema del selvaggio hanno come risvolto la barbarie dei riti campestri e il sangue versato dagli uomini. Certamente una testimonianzia lucida e disincantata dell’ultimo Pavese, parole come testimoni, baluardo del pensiero di un uomo che per tutta la vita ha riflettuto sull’essenza stessa del vivere.

Elisabetta Biondi della Sdriscia
La scelta di Pavese di rinviare attraverso il suo testamento poetico e umano a una linea di poesia che attraversa idealmente tutta la letteratura italiana dallo Stilnovo a Leopardi appare estremamente significativa: è l’ammissione di una rinuncia, di una sconfitta, dell’impossibilità di sfuggire alla morte che accompagna ogni istante della nostra esistenza attraverso una scrittura nuova, anzi attraverso la scrittura tout court. Della vita e delle illusioni che l’hanno alimentata restano gli occhi: uno sguardo, non parole, e se la morte appariva all’inizio un vizio assurdo, alla fine anche la vita si rivela tale. Pavese ci ha detto addio con una poesia bellissima attraverso la quale è riuscito a farci pervenire, nonostante tutto, la sua voce tra tradizione e straordinaria modernità.

Giulia Bagnoli
Morire è come smettere un vizio: il vizio della vita – e della scrittura che ad essa si sostituisce. Non ci sono occhi di donna a consolarci dinanzi al gorgo, né parole in grado di dare un senso all’esistenza: non possiamo infatti far altro che scendere muti e soli. L’incapacità di comunicare è un tema cardine della poesia del Novecento, ma è anche un tema esistenziale, come ricorda Pavese in un appunto del Diario: “tutto problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri”.

Antonella Bottari
Una breve premessa tratta dal Breviario del caos di Albert Caraco. “…Noi tendiamo alla morte, come la freccia al bersaglio, e mai falliamo la mira, la morte è la nostra unica certezza e sempre sappiamo di dover morire, quale che sia il luogo, il momento, o il modo… Ognuno di noi muore solo e muore interamente… La solitudine è una scuola di morte e l’uomo comune non la frequenterà mai, l’integrità non si ottiene altrove, essa è dunque la ricompensa della solitudine…”. La tesi della poesia, così contigua al pensiero carachiano, è esposta in modo lucido e critico dal poeta il 13 maggio 1950 nel suo diario quando scrive: “In fondo, in fondo, in fondo, non ho colto al volo questa straordinaria avventura, questa cosa insperata e fascinosa, per ributtarmi al mio vecchio pensiero, alla mia antica tentazione – per avere un pretesto di ripensarci…? Amore e morte – questo è un archètipo ancestrale”. Il gorgo, il simbolo finale, assomiglia più al Tartaro degli antichi Dei greci.
E’ possibile, a questo punto, giustapporre alla pavesiana Verrà la morte e avrà i tuoi occhi il lacrimoso verso di Anacreonte, “Di dove non si ritorna” sul piano formale e del linguaggio e per la ricchezza di similitudini e di ossimori, per la sua melodia e per il ritmo lento e triste come il suo messaggio mortale: “…Della dolce vita / poco tempo mi resta, / e spesso piango, ho tanta paura / del Tartaro. / Tremenda è la voragine dell’Ade, / e dolorosa è la discesa /laggiù; /perché, scesi una volta, / in su non si ritorna”. Un altro motivo di bellezza della poesia pavesiana è la sua coerenza logica forte e lineare e la sua coesione molto accurata fatta di rimandi anaforici e cataforici continui.Tutta la poesia è trasfigurata in una visione simbolica e quasi mitica, metafisica, pur rimanendo attaccata alla terra e al mondo ctonio. Morire per amore significa, per Pavese, dare uno scopo alla propria vita. Egli chiarisce questo concetto nel diario, il 23 marzo, scrivendo: “L’amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole – se morire si deve – morire con valore, con clamore, restare insomma. Eppure sempre gli è allacciata la volontà di morire, di sparirci: forse perché esso (l’amore) è tanto prepotentemente vita che, sparendo in lui, la vita sarebbe affermata anche di più?”.

Sabina C.
La morte come antidoto necessario al superamento definitivo di un malessere che annichilisce e consuma… assordante il silenzio che domina questi versi, triste presagio di chi si consegna con spietata e calcolata freddezza al suicidio.

Antonietta Puri
La poesia è così nota che ogni commento appare superfluo, quasi un sovrappiù: amore e morte e quasi desiderio di quella morte che in Pavese è sempre presente….: stavolta la morte arriverà davvero e saranno gli occhi di quella donna a farle da specchio. Comunque struggente…

Duccio Mugnai
A mio modo di vedere, quella di Pavese, è un’infinita ed indeterminabile inadeguatezza al vivere. Spesso le copertine dei suoi romanzi sono associate a dipinti di Van-Gogh… Una follia che trascende, che vorrebbe tutto comprendere, una pretesa di controllo, un “ripeness” che è impossibilità, impazzimento, fino alla composizione disperante, inquietante e macabra delle poesie per Costance Dowling. Pasolini non lo considerava neppure un grande scrittore, ma, oltre all’onesta confessione dell’incapacità di una giusta misura da prendere all’esistenza, credo che nell’opera di Pavese ci sia la macerazione di un uomo soffocato da resposabilità più esistenziali che storiche e politiche, comunque troppo grandi per la sua anima veramente sensibile, e un segreto tenebroso di condanna nascosto tra le pagine, dove si vive quasi sempre al sole, ma dove la morte arriva nell’annichilimento, nella povertà, nel non sapere specificare in semplicità di vita il complicarsi improvviso ed inspiegabile dell’esistere, quando anche gli occhi della donna desiderata diventano giudizio che lega ad un “gorgo” infernale. Come la famosa pittura di Van-Gogh intitolata mietitura. La morte è il mietitore. Sotto il sole, inesorabile, come un amore chiuso a pugno, incapace di aprirsi, di maturare, di sperare: “[…] O cara speranza, / quel giorno sapremo anche noi / che sei la vita e sei il nulla. […]”.

framo
“In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito comincia lo smarrimento della distanza …” (da Feria d’agosto, opera che amo). E “lo smarrimento della distanza” – da un mondo emotivo ed affettivo, reale e mitico, ormai irreparabilmente dissolto – è proprio ciò che avverto leggendo l’immenso Pavese. Quanto manca il tempo in cui, “quando ci lasciavamo, non ci pareva di separarci, ma di andare ad attenderci altrove”, quando, nella perdita, era percepibile anche la via che riporta all’origine. Grandissimo Pavese.

Marco Capecchi
Poesia che tutti abbiamo letto e riletto da giovani e che più di altre mandate a memoria ci ha accompagnato nella vita. Ancora oggi leggerla commuove per le atmosfere che rievoca e per la sua bellezza.

m
Pavese, oltre a dialogare (straordinariamente riscrivendolo) con il mito classico, si dimostra all’altezza del padre dei tragici moderni, il buon W.S. “What, in ill thoughts again? Men must endure / Their going hence, even as their coming hither; / Ripeness is all. Come on” (King Lear, V, 2).

Matteo Mazzone
La devastazione è la sensazione principale che dilania l’animo di Pavese: una consapevolezza, sempre più crescente e sempre più dolorosa, di una “vita non vita”. Dapprima, dunque, una meditazione che si fa accecante parola scritta, sudata macchia di sangue, fino alla risolutezza cruda ed acerba: il nuovo obbiettivo è il raggiungimento del “gorgo del nulla”, infelicemente cantato anche dall’ultimo d’Annunzio, in cui l’uomo si riduce ad essere “il cane del suo nulla”. Ma per Pavese l’uomo non sminuisce alla maniera dannunziana: trasumana insofferente, s’allieva di ogni dolore vissuto o da vivere, si fa abbracciare dal caldo ed amichevole soffio di una morte che si presenta come una domestica ed inscindibile compagnia. Rimane solo desolazione, estrema indifferenza per il proprio io, sicura voglia di morire.

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