Pubblicato il 30 settembre 2017

‘Notizie di poesia’. Settembre, il post del mese ex aequo (Montale, con i vostri commenti)

Firenze, 30 settembre 2017 – Incredibile ma vero: come per il mese di luglio le “Notizie di poesia” di settembre non soltanto registrano un ex aequo, ma perfino un identico ex aequo tra Mario Luzi ed Eugenio Montale! Si tratta di due campioni della nostra poesia novecentesca e che il testa a testa fra due grandissimi […]

di Marco Marchi

Firenze, 30 settembre 2017 – Incredibile ma vero: come per il mese di luglio le “Notizie di poesia” di settembre non soltanto registrano un ex aequo, ma perfino un identico ex aequo tra Mario Luzi ed Eugenio Montale! Si tratta di due campioni della nostra poesia novecentesca e che il testa a testa fra due grandissimi prosegua ha un significato! Dunque Luzi e le torri altere (che abbiamo ripubblicato ieri) e Il girasole di Montale (che ripubblichiamo oggi) alla pari. E dopo di loro, argento, una presenza che non può che farci piacere, persuasi come siamo, e non da ora, della sua assoluta straordinarietà: Emily Dickinson con Emily Dickinson e la speranza. Per suo conto il terzo posto rafforza l’internazionalità delle scelte settembrine, con il portoghese Fernando Pessoa sul podio, molto piaciuto ai nostri lettori con un suo splendido testo che ha dato luogo al post Il Magnificat di Fernando Pessoa.

Tra i vostri commenti montaliani, tutti pregevoli, segnaliamo quelli di Elisabetta Biondi della Sdriscia, Antonietta Puri e Matteo Mazzone. Rispettivamente “‘Tendono alla chiarità le cose oscure’ – esordisce e chiarisce la seconda quartina – perciò, anche se la vita è un fluire vanendo, di cui resta nell’aria solo un’eco, quel girasole impazzito può salvarci, mostrandoci l’essenza delle cose, fornendo un senso, infine, a quel fluire. Ma è un’epifania che giunge dall’esterno – ‘Portami il girasole…’ –  legata alla presenza salvifica di una figura femminile non presente se non in quel pronome personale, in quel tu che è invocazione e rinuncia ad avere parte attiva nel trovare una soluzione dell’enigma. E quell’amore che può vivificare il ‘terreno bruciato’ di Montale è chiarità e luce, ma non pace: porta con sé, insieme, luce abbagliante e inquietudine, ansietà, pienezza di follia”; “In questa splendida poesia di Montale troviamo il suo pessimismo e il suo desiderio di armonia e di rinascita. Il girasole che desidera è lo specchio in cui si possa riflettere la sua inquietudine di essere limitato, ma è anche un’immagine di luce che,ammorbidendo uno spirito provato, quasi inaridito da una visione negativa della vita, possa esprimere all’esterno tutta la sua ansietà, rivelandola. E’ nella consapevolezza che tutto ciò che esiste al mondo va pian piano dissolvendosi per fondersi con il tutto che Montale trova un motivo di consolazione ed afferma che è bene che ciò accada: da soli si soffre; disciogliersi nel tutto ed identificarsi con la bellezza della natura è vitale e persino esaltante…”; “Dal rifiuto di una letteratura aulica ed estetizzante alla ricerca di una rinnovata voce, pur sempre tradizionale, un abbassamento tonale del lirico, che si fa narrativo specchio sociale, fatto attuale tradotto in figure e in simboli, dove anche il linguaggio sublime – che non scompare del tutto nella frequente presenza di preziosismi – subisce uno slittamento diafasico, dal formale tout court all’insediamento di un informale leggiadro, tenero, sostanziale. Ora il filosofare montaliano, il suo pensiero poetante trovano coraggio ad esporsi nel silenzio assordante delle ricerca, dell’indeterminatezza umana ed esistenziale. Ora è bello lo scoprire una verità causale, demiurgica e confortante, ora è bello osservare e pensare il girasole come un’epifania felice, vitale, amorosa. Ecco lo stato di grazia, il rarissimamente rassicurante perché esplicito, in quanto dis-illusorio e verace”.

Buon Montale a tutti, e buon inizio di ottobre con una nuova poesia del giorno! A domani!

Marco Marchi

Il girasole di Montale

VEDI I VIDEO “Portami il girasole…”“In limine” letta dall’autore , L’Ermetismo secondo Eugenio Montale , Intervista a Montale, con letture di testi , “Ciò che di me sapeste” letta da Anna Proclemer

Firenze, 12 settembre 2017 – Ricordando che il 12 settembre 1981 moriva a Milano Eugenio Montale.

Montale muove nel suo scrivere versi dal non sentirsi in sintonia con la vita, con il mondo e con se stesso. La sua poesia del disaccordo, dell’interrogazione, dell’insoddisfazione e dell’incertezza, si situa bene a quel più generale quadro della letteratura italiana del primo Novecento che sul piano della narrativa presenta i grandi nomi di Svevo, Pirandello e Tozzi. Non sarà un caso che Montale sia stato uno dei responsabili della tardiva scoperta del grande Italo Svevo, e questo probabilmente sulla base di una concezione dell’esistenza che, nonostante le diverse età e le diverse esperienze maturate, i due scrittori avevano in comune.

Giacomo Debenedetti ha parlato, a proposito di Svevo, Tozzi e Pirandello, di «romanzo interrogativo»: romanzo nuovo, innovativamente avanzato e proiettato al futuro, in quanto fuori dalle facili forme di presunta esplicabilità sperimentate ed autorizzate dalla narrativa precedente. C’è una crisi in atto del naturalismo: una crisi che vede decadere la possibilità di spiegare il mondo secondo le tradizionali categorie di causa e di effetto e vede invece prepotentemente affacciarsi un interrogativo: la letteratura della crisi del naturalismo è una letteratura modernamente alla ricerca del senso. Mentre gli scrittori di tipo naturalista e verista scrivevano perché sapevano spiegare la realtà (e lo dimostravano concretamente, con il ricorso teoricamente sostenuto ed efficiente alle risulanze scientifiche del positivismo), i narratori nuovi del Novecento scrivono perché non sanno più spiegare il reale.

Ecco che nella pagina di questi scrittori si insinua un’incertezza, un’instabilità di prospettive, una difficoltà di movimento. L’ambito della poesia coeva non è molto distante da queste intervenute difficoltà e da queste nuove esigenze profilatesi. Leggendo le poesie del primo Ungaretti e quelle del primo Montale ci accorgiamo che anche nella produzione poetica di questi autori domina un’inquietudine: la realtà non offre più quelle certezze di cui si faceva portavoce nell’ottica naturalista ottocentesca. E l’insicurezza investe anche l’interiorità dell’uomo. Gli scrittori citati portano alla ribalta i temi alternativi di una ricerca psicologica che culmineranno nella scoperta dell’inconscio e della psicoanalisi di Freud, che dimostrano che l’uomo è qualcosa di molto più complesso e misterioso di quanto si fosse immaginato fino a quell’epoca.

La poesia di Montale fin dagli Ossi di seppia è la poesia della disarmonia, della dicibilità al negativo dell’esistere, a partire dalla definibilità per via negativa della poesia stessa. Montale conduce un discorso molto rigoroso e molto personale in cui coinvolge tutte le risorse storiograficamente testabili appannaggio del linguaggio poetico: tutte le risorse del senso e tutte le risorse del suono che una storia della poesia italiana ha condotto fin lì, già differenziandosi sostanzialmente in questo bilanciamento dalla strada coeva di Giuseppe Ungaretti. Poco importano, a ben vedere, i poco cordiali rapporti biografici intercorsi tra i due poeti, che non si sono mai troppo amati perché concorrenziali nell’immagine del più grande poeta italiano del Novecento. Importa invece notare come effettivamente, leggendo i testi dei due poeti a confronto, le vie si divarichino.

E si divaricano sensibilmente: fin dal modo di esordire sulla scena letteraria. Ungaretti debutta poco prima di Montale e lega il suo nome ad Allegria di naufragi, del 1919, che a sua volta sussume i componimenti del precedente Porto sepolto, editi soltanto in 80 copie nel 1916. Montale sei anni dopo, nel 1925, pubblica la prima edizione di Ossi di seppia. Le strade si presentano subito diverse, nel senso che Ungaretti pensa con fiducia di tipo avanguardistico di poter sillabare la lingua italiana dando espressione al suo nuovo modo di porsi in contatto con la realtà: la possibilità intravista dal poeta di poter fare a meno in qualche modo di una tradizione della poesia italiana giunta fino agli anni della prima guerra mondiale, e la possibilità alternativa, in una situazione dolorosamente eccezionale, tragicamente straordinaria come la guerra, di ricominciare a «pronunciare il mondo». Una fiducia forse resa possibile o almeno incrementata in Ungaretti dal fatto di provenire da Alessandria d’Egitto, di essere uno «spatriato» geograficamente ed autobiograficamente accertabile, in qualche modo sufficientemente distanziato da una vicenda letteraria secolare che invece un poeta come Montale ha sempre sentito più vicina, anche nei suoi studi e nelle sue primissime pratiche linguistiche, nel corso stesso della sua formazione culturale anteriore al debutto poetico.

In altri termini Montale oppone alla scelta rivoluzionaria, radicalmente e potentemente rivoluzionaria di un Ungaretti alla ricerca di un paese e di parole innocenti, un libro come Ossi di seppia: un libro che un critico, Pier Vincenzo Mengaldo, ha persuasivamente definito documento di «conservatorismo linguistico», intendendo dire con questo un libro agli antipodi con la poesia di cui si fa portavoce Ungaretti: una poesia, quella degli Ossi, che mutua il suo linguaggio dalla tradizione immediatamente precedente al suo atto linguistico, che intrattiene con quella tradizione linguistica forti legami. Potremmo dire – semplificando e quasi ignorando le protostoriche poesie di genere palazzeschiano-lacerbiano, avanguardistico-futuristiche e crepuscolari che Ungaretti aveva scritto e che di Ungaretti si conservano – che il primo Ungaretti fa sostanzialmente a meno di una storia della poesia italiana giunta al 1919, epoca di Allegria di naufragi. Quello stesso Ungaretti si dimostra pronto poi, con Sentimento del Tempo, a rivedere questa sua posizione. Eugenio Montale, nello scrivere le poesie che confluiranno nel 1925 in Ossi di seppia, dichiara al contrario la sua derivazione, la sua dipendenza di tipo storico-linguistico dalla poesia che lo ha immediatamente preceduto, confidando, in vista dell’originalità, di una relazione di conoscenza e superamento da intrattenere con i modelli preesistenti.

Sta di fatto che senza la sperimentazione linguistica e formale di D’Annunzio (basti pensare a un testo di assoluto rilievo come Alcyone) gli Ossi di seppia non sarebbero stati quelli che oggi noi leggiamo e valutiamo in tutta la loro importanza storiografica. Il linguaggio che Montale adotta nell’esprimersi nel suo primo libro è fortemente intriso di lezioni soprattutto dannunziane, ma anche pascoliane e carducciane; di un linguaggio cioè che attraverso la possibilità di cogliere una storia della lingua della poesia italiana ad altezza primonovecentesca sussume anche la tradizione più antica. Potremmo dire che Ungaretti è fiducioso in una sorta di solitudine del poeta: il poeta che in qualche modo da solo tenta la voce della poesia, tenta la voce di suoni e di significati della poesia. Montale, al contrario, per esprimere la sua originalità ed affermarla compiutamente, sente il bisogno di riferirsi ad una lingua poetica formalmente concresciuta attraverso i contributi di molti, giunta a lui con il suo forte e talvolta gravoso bagaglio di scelte, di responsabilità, di strumenti espressivi già messi a punto e sperimentati, di possibilità culturali ed espressive sondate.

Dobbiamo dire allora che Ossi di seppia è un libro dannunziano? No: Ossi di seppia è il libro forse più profondamente antidannunziano che esista agli inizi del Novecento, proprio perché Montale utilizza una sorta di continuità linguistica garantita dai suoi precedenti per effettuare il suo attraversamento critico, che lo porta ideologicamente al di là del conservatorismo linguistico di un libro come Ossi di seppia, che non a caso ad Ungaretti sembrava un libro attardato (per lui era il libro di un «floreale» non dotato della modernità dirompente che invece egli rivendicava con sicurezza alla propria poesia). Montale, poeta «floreale», apparentemente dannunziano e di clima, frutto di una tradizione epigonicamente seguita, in realtà mediante l’attraversamento critico di quel tipo di risorse fa una sua proposta estremamente originale, affidandosi ad una continuità di tipo linguistico che si risolve in realtà in una potente discontinuità di tipo ideologico. Un’originalità cui oggi tutti siamo disposti a riconoscere lo straordinario valore.

Marco Marchi

Portami il girasole… 

Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.

Eugenio Montale

(da Ossi di seppia)

I VOSTRI COMMENTI

Giulia Bagnoli
Non un girasole qualunque, ma il girasole: ebbrezza che rischiara e rende comprensibili le cose oscure; illuminazione che coglie la realtà profonda delle cose; occhi che vedono e trattengono; bagliore di vita che non svanisce. Il girasole impazzito di luce è in realtà la luce la stessa, la bellezza, l’eternità.

m
Eugenio Montale è uno dei massimi tragici del Novecento: un poeta che parla per chiunque avverta che c’è un dissidio insanabile tra le “cose oscure” (come la pesantezza dell’esistenza) e la “chiarità” cui esse disperatamente tendono, innamorate della sua grazia, di cui non si sentono parte alcuna.

Tania Montini
Il girasole di Montale è simbolo di un’ebbrezza quasi mistica, che rischiara la visione delle cose, estremo tentativo di una poesia che diventa filosofia, teoria della luce, qualcosa di fronte alla quale non si può fare altro che impazzire. Quello che chiede Montale alla sua Musa non è conoscenza, è qualcosa di più, è quello che i più grandi poeti chiamano “Illuminazione”.

Tristan51
Montale è sempre Montale, anche a rileggerlo in un testo notissimo e perfino abusato come questo. Interessantissima, tra i video allegati, l’intervista al poeta, e una vera rarità la lettura – ancora da “Ossi di seppia”, ma di una poesia meno conosciuta – di Anna Proclemer.

framo
Una dissolvenza allucinata e abbacinata è ciò a cui può auspicare di giungere, in extremis, la ricerca del poeta; una rarefazione d’essenza (verso una sempre accresciuta corporea inconsistenza, divenuta aroma e suono puro) al rivelarsi del dissiparsi come unica verità chiara e certa in ordine alla condizione umana e delle cose. Sempre un bagno di luce che oscura e abbaglia immergersi nei versi intensi e magnifici del poeta.

In questa splendida poesia di Montale troviamo il suo pessimismo e il suo desiderio di armonia e di rinascita. Il girasole che desidera è lo specchio in cui si possa riflettere la sua inquietudine di essere limitato, ma è anche un’immagine di luce che,ammorbidendo uno spirito provato, quasi inaridito da una visione negativa della vita, possa esprimere all’esterno tutta la sua ansietà, rivelandola. E’ nella consapevolezza che tutto ciò che esiste al mondo va pian piano dissolvendosi per fondersi con il tutto che Montale trova un motivo di consolazione ed afferma che è bene che ciò accada: da soli si soffre; disciogliersi nel tutto ed identificarsi con la bellezza della natura è vitale e persino esaltante…

Chiara Scidone
Il girasole, una pianta bellissima e particolare. Montale chiede proprio esso, di quel colore giallo (come i limoni) messo a contrasto con l’azzurro del cielo. Una pianta che porta all’illuminazione. Parlandoci del terreno bruciato dal salino, si riferisce al suo animo, e infine la parte che mi piace di più, in cui si parla dello svanire, dell’ andarsene, il morire nella musica, la cosa che più si avvicina  alla poesia.

Matteo Mazzone
Dal rifiuto di una letteratura aulica ed estetizzante alla ricerca di una rinnovata voce, pur sempre tradizionale, un abbassamento tonale del lirico, che si fa narrativo specchio sociale, fatto attuale tradotto in figure e in simboli, dove anche il linguaggio sublime – che non scompare del tutto nella frequente presenza di preziosismi – subisce uno slittamento diafasico, dal formale tout court all’insediamento di un informale leggiadro, tenero, sostanziale. Ora il filosofare montaliano, il suo pensiero poetante trovano coraggio ad esporsi nel silenzio assordante delle ricerca, dell’indeterminatezza umana ed esistenziale. Ora è bello lo scoprire una verità causale, demiurgica e confortante, ora è bello osservare e pensare il girasole come un’epifania felice, vitale, amorosa. Ecco lo stato di grazia, il rarissimamente rassicurante perché esplicito, in quanto dis-illusorio e verace.

Duccio Mugnai
“Il male di vivere”, così tanto esplicitato nell’opera montaliana, sembra qui davvero contraddetto, quantomeno combattuto da una vena vitalistica, floreale-dannunziana. Si cerca un girasole “impazzito” di luce, come lo sono quelli tessuti “in materia” da Van-Gogh. Si chiede qualcosa che possa essere trapiantato nel “salino” bruciato, dove non c’è fertilità né nascita, ma dove l’oscuro si chiarifica, svanire diventa la più grande delle avventure e l’evaporazione della vita appare la sua consueta, fulminante essenza

Sabina C.
Dalla materialità all’essenza, che è luce, libertà, dissolvimento, evanescente trasparenza!

Elisabetta Biondi della Sdriscia
“Tendono alla chiarità le cose oscure” – esordisce e chiarisce la seconda quartina – perciò, anche se la vita è un fluire vanendo, di cui resta nell’aria solo un’eco, quel girasole impazzito può salvarci, mostrandoci l’essenza delle cose, fornendo un senso, infine, a quel fluire. Ma è un’epifania che giunge dall’esterno – “Portami il girasole…” –  legata alla presenza salvifica di una figura femminile non presente se non in quel pronome personale, in quel tu che è invocazione e rinuncia ad avere parte attiva nel trovare una soluzione dell’enigma. E quell’amore che può vivificare il “terreno bruciato” di Montale è chiarità e luce, ma non pace: porta con sé, insieme, luce abbagliante e inquietudine, ansietà, pienezza di follia.

Paolo Parrini
Montale in questa poesia cerca e trova nel girasole e nelle sensazioni che ne derivano l’oggetto per esprimere una emozione,un sentimento di eterno, quasi oltre la realtà, qualcosa che lo avvicina al concetto di correlativo oggettivo di Eliot. La poesia è pervasa tutta dalla ricerca di un varco alla rete che stringe la vita dell’uomo, alternata nella seconda quartina al senso montaliano della amara meraviglia verso la vita e il destino. Alla fine il girasole è quasi simbolo mistico, essenza, alla quale il poeta chiede una sorta di Illuminazione, un appagamento della sua brama di infinito…”portami il girasole impazzito di luce”. Brama che pervade tutta la sua poetica, anche seguente,fino “al varco”, intravisto per un attimo ne “La casa dei doganieri” e poi disparso, beffardo.

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