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Firenze, 6 dicembre 2025 – Nata a Tesero, in provincia di Trento, Vivian Lamarque è sempre vissuta a Milano dove ha insegnato letteratura in vari istituti e italiano agli stranieri. Ha esordito in poesia nel 1981 con la bella raccolta Teresino, vincitrice del Premio Viareggio Opera Prima, a inaugurazione di una lunga serie di affermazioni e riconoscimenti che conta al suo attivo premi come il Carducci, il Bagutta, lo Strega Poesia e il Saba.
A Teresino hanno fatto seguito nel corso degli anni – edite sempre presso prestigiosi editori, da Crocetti a Garzanti e Rizzoli, da Mondadori a Einaudi – numerose raccolte. Alla vasta produzione in versi culminata nei recenti L’amore da vecchia e E la vita intanto?, Vivian Lamarque ha poi affiancato una prolifica attività di scrittrice di fiabe e libri per bambini, ottenendo ulteriori premi quali il Premio Rodari e il Premio Andersen. Ha tradotto Valéry, Baudelaire, Prévert e La Fontaine e dal 1992 collabora al “Corriere della Sera”.
Alla difficile ricerca di un’identità personale anagraficamente divisa fra quattro cognomi e altrettante vite possibili, la poesia della Lamarque è poesia delle origini di esemplare naturalezza e felicità espressiva. Ed è così che un’autobiografia dolorosamente segnata dal senso d’abbandono, di perdita, d’inappartenenza approda all’illimitata, incircoscritta, artisticamente remunerativa e umanamente comunicabile vicenda amorosa dell’esercizio poetico. Ed è così, ancora, in questi coltivati ambiti espressivi tra vita e pratica letteraria, che dalla cifra iniziale di una poesia nata pure lei “illegittimamente” fra disagio e incanto ai sempre più maturi autoriconoscimenti dell’età adulta, la scrittura poetica di Vivian Lamarque ha conservato intatti lo stupore di un’infanzia perenne e, insieme, il valore di totalizzante, vivida ed affidabile esperienza conoscitiva.
Marco Marchi
Poesia illegittima
Quella sera che ho fatto l’amore
mentale con te
non sono stata prudente
dopo un po’ mi si è gonfiata la mente
sappi che due notti fa
con dolorose doglie
mi è nata una poesia illegittimamente
porterà solo il mio nome
ma ha la tua aria straniera ti somiglia
mentre non sospetti niente di niente
sappi che ti è nata una figlia.
(da Tesesino, Società di poesia, 1981)
I nomi degli amanti
Confondere i bei nomi
degli amanti? Pronunciarli al momento
giusto con il nome sbagliato?
Chiedo perdono all’Olmo
quando lo chiamo Faggio
e al Frassino quando lo chiamo
Acacia, quando si offese il Carpino
quando non lo riconobbi
a voltarsi di là umiliato lo aiutò il vento.
Mi perdoni il Larice che l’ho chiamato Abete
e l’Abete che l’ho chiamato
Pino, alle conifere tutte chiedo scusa
e perdono chiedo ai fidanzati
Tutti dimenticati?
No, i loro nomi ho ancora dentro bene
incisi, ma come per nebbia
confondo un poco rami e mani, colore
delle foglie e dei capelli.
Oh presto saremo boschi tutti quanti insieme?
Avremo cuori d’erba? di radici?
Orfei ed Euridici indietro vòlti
non ti vedremo mai più luce del sole?
Saremo presto boschi tutti quanti insieme?
da una vita passeremo a un’altra, dove? come?
privi dell’azzurro della neve?
privi dell’amore nelle vene?
Se dietro le fotografie
Se dietro le fotografie non scriviamo nomi
e cognomi, già nel giro di due
generazioni sarà tutto un coro
un infinito coro di chini sulle foto
a dire e questo? e questa? e questo
bambino? fratello? cugino? ma di chi?
Nelle stagioni delle finestre spalancate
Usciranno nell’aria infiniti echi
di domande, di punti di domande.
E questo? e questa? forse uno zio
lontano? una lontana zia?
Ma quale zia e zia!
Ero io io io!
Sono io la mia fotografia!
Treno di dentro
Quando nel finestrino di notte nel treno
non vedi fuori vedi dentro
lo scompartimento, strani incontri
puoi fare con questa vecchina occhialuta
rotonda stupita che tiene in mano un’erbetta
nel frattempo appassita, che scrive
qualcosa di continuamente spezzato
che va sempre a capo e intanto rosicchia
che cosa? dita? noci ? matita? nel finestrino
si specchia, aggiusta frangetta, rosicchia
qualcosa rosicchia che cosa? dita?
matita? la vita?
Carta da ricalco
Sul vetro terso della finestra con carta-ricalco
e affilata matita di ricalcare lei tenta della vita
ogni singolo giorno non manchi un’alba all’appello
né un mezzogiorno.
Ben tesa la carta? Combaciano disegno
e contorno? Oh che non manchi quel minuto
quell’ora, che non manchi nessuna, che nel ricalco
non sposti la luna.
Che non si perda neppure lo spuntare del tram
da lontano, quel volo da quel ramo a quel
ramo, con le dita conto e riconto che non si perda
un secondo del mondo.
E con l’udito ricalca pompieri ambulanze sirene
e del merlo il fischiare e di Guappo giù in strada
l’educato sottovoce abbaiare
e il sottile righìo che sul vetro fa la matita
il dolce rumore, caro Sandro Penna, della vita.
Esercito
Al bisogno faccio l’appello
le nomino le convoco e loro accorrono
in punta di gambette, di curve,
di occhielli, loro le lettere
a formare parole, le rifiutate
si ritirano mogie con la coda
tra le gambe, le prescelte si allineano
lì dove le metto, anzi non lì, là, anzi
qua, in riga! attente! riposo! a capo!
ordino al mio esercito fidato.
Per ora fidato.
(non lasciarmi mai, Alfabeto)
Vivian Lamarque
(da L’amore da vecchia, Mondadori, 2022)
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Firenze, 5 dicembre 2025 – Ricordando che il 29 novembre scorso ricorreva l’anniversario della morte di Mark Strand (Brooklyn, 29 novembre 2014).
Cos’era
I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; la sua azzurrezza, l’ombra che lasciava,
che cadeva, riempiva l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori da se stesso, fuori da qualsiasi idea
di se’ descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto in un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in se’, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo tenero, piccolo vuoto che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e cosi’ sempre,
e sempre perche’, e solo perche’, essendo stato, era…
II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sulla chioma.
Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai piu’ chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto — un momento tanto pieno
che quando se ne ando’, come doveva, nessun dolore riusciva
a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
dimenticato da lei, la penna che lei lascio’ sul tavolo.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, per giorni. Era quello. Solo quello.
(traduzione di Damiano Abeni)
What it was
I
It was impossible to imagine, impossible
Not to imagine; the blueness of it, the shadow it cast,
Falling downward, filling the dark with the chill of itself,
The cold of it falling out of itself, out of whatever idea
Of itself it described as it fell; a something, a smallness,
A dot, a speck, a speck within a speck, an endless depth
Of smallness; a song, but less than a song, something drowning
Into itself, something going, a flood of sound, but less
Than a sound; the last of it, the blank of it,
The tender small blank of it filling its echo, and falling,
And rising unnoticed, and falling again, and always thus,
And always because, and only because, once having been, it was…
II
It was the beginning of a chair;
It was the gray couch; it was the walls,
The garden, the gravel road; it was the way
The ruined moonlight fell across her hair.
It was that, and it was more. It was the wind that tore
At the trees; it was the fuss and clutter of clouds, the shore
Littered with stars. It was the hour which seemed to say
That if you knew what time it really was, you would not
Ask for anything again. It was that. It was certainly that.
It was also what never happened – a moment so full
That when it went, as it had to, no grief was large enough
To contain it. It was the room that appeared unchanged
After so many years. It was that. It was the hat
She’d forgotten to take, the pen she left on the table.
It was the sun on my hand. It was the sun’s heat. It was the way
I sat, the way I waited for hours, for days. It was that. Just that.
Mark Strand
(da Blizzard of One, 1998)
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Firenze, 2 dicembre 2025 – Ricordando che il 28 novembre scorso ricorreva l’anniversario della scomparsa di Franco Fortini (all’anagrafe Franco Lattes), morto a Milano il 28 novembre 1994.
La partenza
Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima:
Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire,
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.
Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.
Franco Fortini
(da Una volta per sempre, 1963)
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Firenze, 4 dicembre 2025 – Ricordando che il 4 dicembre 1875 nasceva a Praga Rainer Maria Rilke.
Esperienza della morte
Nulla sappiamo di questo svanire
che non accade a noi. Non abbiamo ragioni
– ammirazione, odio oppure amore –
da mostrare alla morte la cui bocca una maschera
di tragico lamento stranamente sfigura.
Molte parti ha per noi ancora il mondo. Fino a quando
ci domandiamo se la nostra parte piaccia,
recita anche la morte, benché spiaccia.
Ma quando te ne andasti, un raggio di realtà
irruppe in questa scena per quel varco
che tu ti apristi: vero verde il verde,
il sole vero sole, vero il bosco.
Noi recitiamo ancora. Frasi apprese
con pena e con paura sillabando,
e qualche gesto; ma la sua esistenza,
a noi, al nostro copione sottratta,
ci assale a volte e su noi scende come
un segno certo di quella realtà;
tanto che trascinati recitiamo
qualche istante la vita non pensando all’applauso.
(traduzione di Giacomo Cacciapaglia)
Todes-Erfahrung
Wir wissen nichts von diesem Hingehn, das
nicht mit uns teilt. Wir haben keinen Grund,
Bewunderung und Liebe oder Haß
dem Tod zu zeigen, den ein Maskenmund
tragischer Klage wunderlich entstellt.
Noch ist die Welt voll Rollen, die wir spielen.
Solang wir sorgen, ob wir auch gefielen,
spielt auch der Tod, obwohl er nicht gefällt.
Doch als du gingst, da brach in diese Bühne
ein Streifen Wirklichkeit durch jenen Spalt
durch den du hingingst: Grün wirklicher Grüne,
wirklicher Sonnenschein, wirklicher Wald.
Wir spielen weiter. Bang und schwer Erlerntes
hersagend und Gebärden dann und wann
aufhebend; aber dein von uns entferntes,
aus unserm Stück entrücktes Dasein kann
uns manchmal überkommen, wie ein Wissen
von jener Wirklichkeit sich niedersenkend,
so daß wir eine Weile hingerissen
das Leben spielen, nicht an Beifall denkend.
Rainer Maria Rilke
(1907; da Nuove poesie, Einaudi 1992)
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Firenze, 3 dicembre 2025 – Perugina d’origine, fin dagli anni dei suoi studi universitari di filosofia Patrizia Cavalli ha vissuto a Roma. È stata autrice di cinque libri di versi, tutti pubblicati presso Einuadi: da “Le mie poesie non cambieranno il mondo” del 1974, il cui titolo fu suggerito da Elsa Morante, al recente “Datura”. Ha scritto radiodrammi per la RAI, è stata autrice di saggi (notevole quello sulla pittrice messicana Frida Kahlo) e ha tradotto le maggiori opere teatrali di Shakespeare.
Nel 2013 le è stata dedicata dalla romana Galleria Miscetti una mostra di manoscritti, stagnole e liste dal titolo “I miei splendidi giorni tutti uguali” ed è stata insignita di premi prestigiosi, tra i quali il Premio Viareggio, il Premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei e il Premio Betocchi. Nel 2019 è uscito un suo libro di prose intitolato Con passi giapponesi.
La motivazione con la quale vinse il Premio Betocchi nel 2017 dice: “Fin dai suoi esordi affidati nel 1974 a “Le mie poesie non cambieranno il mondo” (il titolo del libro, con sottofondi citazionali antifrastici che rimandano a Dylan Thomas fu suggerito alla giovane autrice da Elsa Morante), la Cavalli connota la sua voce nella privilegiata accezione di un canto d’amore. Canto d’amore moderno, onnicomprensivo e cangiante, terrestre e celeste, alieno da risaputi luoghi comuni, facili romanticismi, smancerie e stucchevolezze, e teso invece, con rigoroso coraggio e strenua consapevolezza, all’effettiva possibilità di coniugare attraverso quel canto un attendibile studio, insieme, di chi lo intona e dell’uomo, tra autoidentificazione ed esatta decifrazione dei significati universali dell’esistere.
Canzoniere d’amore dell’io e del mondo, insomma, tra soggettività e coralità, persona e collettivo. A questo tipo di coniugazione fondante realizzata per via di parola tra corpo e anima, abbandono e attenzione, immanenza e astrazione, rimandano anche le successive quattro raccolte dell’autrice, tutte pubblicate, come la prima, da Einaudi: da “Il cielo” del 1981 a “L’io singolare proprio io” del 1992, da “Sempre aperto teatro” del 1999 ai libri del nuovo millennio, “Pigre divinità e pigra sorte” del 2006 e “Datura” del 2013.
E fin dai titoli dei suoi libri Patrizia Cavalli stessa rivela ingredienti e sapori della sua sapiente officina scrittoria: dal gusto per il teatro che l’ha portata a farsi scrittrice drammaturgica, convincente performer e, insieme, eccellente traduttrice di capolavori shakespeariani, al robusto quoziente di birichina ed incendiaria ironia resa attiva fino al tragicomico e all’assurdo. Un percorso in crescita, quello della Cavalli, articolatosi anche secondo varietà espressive e prima ancora musicali, che alla misura breve della leggerezza dell’esempio penniano e alla concisione folgorante dell’epigramma ha saputo affiancare più impegnativi e distesi esiti di tipo narrativo e poematico, tanto da far pensare ad una forse del tutto inconsapevole ma parimenti interessante sintonia con l’evoluzione di una poetessa del Novecento, tra flash e lirico ragionare filosofico alla Leopardi, come Daria Menicanti.
È in questa prospettiva ampliante incentivata nel corso degli anni che i sempre presenti valori etici, corali e societari dell’ispirazione di Patrizia Cavalli si visibilizzano, come accade esemplarmente nell’epistola alla maniera illuministica intitolata “Aria pubblica” di “Pigre divinità e pigra sorte” o, in “Datura”, il notevolissimo poemetto in forma drammatica “Tre risvegli”. Oltre che alla poesia, al teatro e alla traduzione, Patrizia Cavalli si è dedicata infine, con ottimi risultati, anche alla saggistica, per cui è impossibile non ricordare almeno il suo lavoro dedicato alla pittrice messicana Frida Kahlo“.
E’ scomparsa a Roma, dopo una lunga malattia, il 21 giugno 2023.
Marco Marchi
Il cuore non è mai al sicuro e dunque
Il cuore non è mai al sicuro e dunque,
fosse pure in silenzio, non vantarti
della vittoria o dell’indifferenza.
Rendi comunque onore a ciò che hai amato
anche quando ti sembra di non amarlo più.
Te ne stai lì tranquilla? Ti senti soddisfatta?
Potresti finalmente dopo anni
d’ingloriosa incertezza, di smanie e umiliazioni,
rovesciare le parti, essere tu
che umili e che comandi? No, non farlo,
fingi piuttosto, fingi l’amore che sentivi
vero, fingi perfettamente e vinci
la natura. L’amore stanco
forse è l’unico perfetto.
Patrizia Cavalli
(da Datura, Einaudi 2013)
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Firenze, 1 dicembre 2025 – Ricordando che ieri ricorreva l’anniversario della morte di Fernando Pessoa (Lisbona, 30 novembre 1935).
Questa vecchia angoscia
Questa vecchia angoscia,
questa angoscia che porto da secoli dentro di me,
è traboccata dal vaso,
in lacrime, in grandi immaginazioni
in sogni tipo incubi senza terrore
in grandi emozioni improvvise, senza alcun senso.
È traboccata.
Quasi non so come comportarmi nella vita
con questo malessere che mi riempie l’anima di pieghe!
Se almeno impazzissi per davvero!
Ma no: è questo essere a mezza strada,
questo quasi,
questo essere sul punto di…
Il ricoverato di un manicomio almeno è qualcuno.
Io sono il ricoverato di un manicomio senza manicomio.
Sono pazzo a freddo,
sono lucido e matto,
sono estraneo a tutto e uguale a tutti:
sto dormendo sveglio con sogni che sono pazzia
perché non sono sogni.
Sono in questo stato…
Povera vecchia casa della mia infanzia perduta!
Chi avrebbe detto che mi sarei tanto disperso!
Che ne è del tuo bambino? È impazzito.
Che ne è di colui che dormiva tranquillo sotto il tuo tetto provinciale?
È impazzito.
Ma chi, fra quelli che fui? È impazzito. Oggi costui è chi io sono.
Se almeno possedessi una religione!
Per esempio, una per quel feticcio
che c’era in casa nostra, la vecchia casa, che veniva dall’Africa.
Era bruttissimo, era grottesco,
ma c’era in lui la divinità di tutto quello in cui si crede.
— Giove, Geova, l’Umanità —
uno qualunque servirebbe,
nfatti che cosa è tutto se non quello che pensiamo di tutto?
Scoppia, cuore di vetro dipinto!
Esta velha angústia
Esta velha angústia,
Esta angústia que trago há séculos em mim,
Transbordou da vasilha,
Em lágrimas, em grandes imaginações,
Em sonhos em estilo de pesadelo sem terror,
Em grandes emoções súbitas sem sentido nenhum.
Transbordou.
Mal sei como conduzir-me na vida
Com este mal-estar a fazer-me pregas na alma!
Se ao menos endoidecesse deveras!
Mas não: é este estar entre,
Este quase,
Este poder ser que…,
Isto.
Um internado num manicômio é, ao menos, alguém,
Eu sou um internado num manicômio sem manicômio.
Estou doido a frio,
Estou lúcido e louco,
Estou alheio a tudo e igual a todos:
Estou dormindo desperto com sonhos que são loucura
Porque não são sonhos.
Estou assim…
Pobre velha casa da minha infância perdida!
Quem te diria que eu me desacolhesse tanto!
Que é do teu menino? Está maluco.
Que é de quem dormia sossegado sob o teu teto provinciano?
Está maluco.
Quem de quem fui? Está maluco. Hoje é quem eu sou.
Se ao menos eu tivesse uma religião qualquer!
Por exemplo, por aquele manipanso
Que havia em casa, lá nessa, trazido de África.
Era feiíssimo, era grotesco,
Mas havia nele a divindade de tudo em que se crê.
Se eu pudesse crer num manipanso qualquer
— Júpiter, Jeová, a Humanidade —
Qualquer serviria,
Pois o que é tudo senão o que pensamos de tudo?
Estala, coração de vidro pintado!
Álvaro de Campos (Fernando Pessoa)
(da Poemas)
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L’ARCHIVIO DEI POST
INDICE PER AUTORE novembre 2025
APOLLINAIRE La notte di Apollinaire
BAUDELAIRE L’armonia della sera. Charles Baudelaire
Tozzi traduce Baudelaire
BERTOLUCCI Lasciami sanguinare. Attilio Bertolucci
BUFALINO La dedica di Gesualdo Bufalino
CAMPO La clessidra capovolta. Cristina Campo
CARDUCCI La nebbia a gl’irti colli. Giosuè Carducci
CERNUDA Te l’ho detto con il vento. Luis Cernuda
EDUARDO L’amore secondo Eduardo
HIKMET Hikmet e l’assenza
HUGHES La canzone d’amore di Ted Hughes
JÚDICE La materia della poesia. Nuno Júdice
KEATS Fulgida stella. John Keats
LEOPARDI Re delle cose, autor del mondo. Giacomo Leopardi
LORIA Il falco e l’aquila. Arturo Loria
MERINI O malaccorto amore. Alda Merini
MORANTE La lettera d’amore di Elsa Morante
ORAZIO L’attimo fuggente. Orazio
PASOLINI Anniversario Pasolini
PASTERNAK La vita in versi. Boris Pasternak
PRÉVERT Questo amore. Jacques Prévert
PUSTERLA L’antico gioco di Fabio Pusterla
SALINAS Vaghe soglie dell’anima. Pedro Salinas
SBARBARO L’anima stanca. Camillo Sbarbaro
TOZZI Tozzi traduce Baudelaire
‘Notizie di poesia’. Novembre, il post del mese (con i vostri commenti)
TUROLDO Lo splendore e la tenebra. David Maria Turoldo
UNGARETTI Fine della Grande Guerra con Giuseppe Ungaretti
VIANI Nascita e morte di Lorenzo Viani
WITHMAN Whitman e il Capitano
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Ed eccoci ai vostri commenti su Tozzi e Baudelaire, tra cui segnaliamo quelli di Giacomo Trinci, Antonietta Puri e Arianna Capirossi. Nell’ordine: “Imitazione, emulazione; tradizione, traduzione. All’incrocio di questo quartetto si gioca il giogo crudele della letteratura tozziana. Un autore colto e “primitivo” insieme, che mette in campo la sua sfolgorante consapevolezza tragica in questo sonetto che trascina in italiano, da una tradizione all’altra, il fraterno sanguinare di Baudelaire. L’autore francese e l’autore italiano si fronteggiano, mescolano le acque, fedelmente tralucono l’uno sull’altro, tanto da evidenziare la straordinaria presenza, “spettrale”, si direbbe, di un Baudelaire italiano d’inizio novecento, pronto ad assimilare la via crucis del poeta francese: donando voce e corpo ad uno spettro aggirante nella modernità appena inaugurata.”; “Tozzi deve essersi sentito molto vicino a Baudelaire, se oltre ad averlo letto, amato e approfondito, si è cimentato nella traduzione della sua undicesima Fleur, ‘Le Guignon’, esemplare forse per cogliere gli elementi comuni tra i due autori così diversi per tempi, spazi, formazione e dipendenze letterarie, a cominciare dall’esistenza travagliata di entrambi e da una visione inclemente e al tempo stesso pietosa e commossa dell’uomo, con le sue bassezze e sublimità, le sue cadute e i tentativi di risollevarsi, l’oscillare perpetuo tra il tedio e l’ideale. C’è in entrambi la coscienza dell'”esiliato” e quindi l’estraneità del mondo in cui vivono: ogni tentativo di elevazione sembra in essi fallire, con il ritorno all’accidia e a una frustrazione comunque non accettata. Il loro modo di esorcizzare il fallimento è diverso tuttavia: mentre il poeta francese lo fa perseguendo con religiosa dedizione l’ispirazione alla bellezza e all’arte, Tozzi prende chiara coscienza del proprio male con la virile volontà di superarlo, pur senza giungere ad una redenzione vera e propria. Tanto in Baudélaire, quanto nello scrittore senese, le parole sono vere, perché sgorgano da una continua e profonda meditazione sull’intero contesto delle loro esistenze: il primo, conclamato ‘Poeta impeccabile…’ da T. Gautiér, colui che fa dire a Hugo aver ‘dato nuovi meriti al cielo dell’arte’ e un Tozzi… un poeta? Oh, sì! Soprattutto – secondo me – in ‘Bestie’ dove ‘Fin dall’inizio…invoca la libertà, la dolcezza, il ricongiungimento’ con ‘…gli sguardi di un’anima già avvertita piena di occhi chiusi ‘ (Marco Marchi, “Bestie”, 1994). Qui, pur nello stile frammentario insolito rispetto alla struttura narrativa tradizionale, si coglie – più che una serie di spunti per riflessioni filosofiche – una visione metafisica del paesaggio di sfondo, con un forte slancio lirico che si ritrova anche nelle opere prettamente narrative in cui, ad una prosa asciutta e a una lingua scarna, degne di un grande scrittore, si mescolano una grande finezza lirica e delle suggestioni uniche.”; “Assai interessante questa prova traduttoria di Tozzi sul testo di Baudelaire: rimanendo fedele alla lettera dell’originale, Tozzi assimila perfettamente i temi baudelairiani, rivelando una sostanziale affinità con lo stile e la sensibilità del francese. Troviamo tuttavia gli adattamenti resi necessari dalla lingua di arrivo. Le immagini dell’originale prendono nuova vita al ritmo dell’endecasillabo, accentuando la loro solennità. Tozzi, seppur conservativo, in conclusione propone una piccola variazione, necessaria al rispetto della metrica e, nel contempo, soluzione metaforicamente efficace: il ‘secret’ baudelairiano si tramuta in ‘sogni avvolti / da grandi solitudini profonde’; sono le stesse ‘solitudes profondes’ dell’originale, però ancora più ‘grandi’, inquietanti, sublimi. Il traduttore dunque, partendo dal componimento francese, crea un ritmo nuovo e plasma un’immagine inedita, riuscendo a esaltare la tematica trattata, pur nel contesto di una traduzione altrimenti ‘bella e fedele'”. ; “Tozzi da grande poeta e da grande uomo di cultura ripercorre, inevitabilmente, le scie oscure di un altrettanto letterario passato; e con “l’oscuro” Baudelaire sembra intessere, ora, un prolifico e forte legame di attività comprensiva dello stesso. L’interrogatorio-affermazione da cui tutto parte è ‘L’Art est long et le Temps est court’ – (che ritorna anche in Balzac nel suo ‘Il capolavoro sconosciuto’): e anche in Tozzi l’arte, cioè il canto lirico – umanisticamente intesa come prosecuzione eterna, pura e gloriosa delle vicende umane – diviene lo strumento principale per porre domande – e semmai a rispondere – alla brevità (e nel caso tozziano direi stringatezza) della vita: cioè che essa può dare, come lo dà, perché e come noi (com)partecipiamo in essa. La modernità di Tozzi consiste, tra l’altro, anche in questo: un’analisi speculativa – che ha il suo illustre antecedente italiano in Svevo – atta a verificare lo scopo della vita umana; e classicamente, come una risposta certa non c’è (se non miriadi e poliedriche varianti approssimanti), così il mezzo più idoneo a questo tipo di indagine rimane la poesia, che con la sua forza creatrice mitiga, appiana, ridistribuisce umori e malumori”. Ma belli anche i commenti di Matteo Mazzone, tristan51 e Isola Difederigo.
Marco Marchi
Tozzi, Baudelaire e un fiore del male
VEDI I VIDEO “Le Guignon” di Charles Baudelaire , Baudelaire secondo Valerio Magrelli , Tozzi, la scrittura crudele , Scene da “Con gli occhi chiusi” di Francesca Archibugi (1994)
Firenze, 13 novembre 2023 – La mappa delle traduzioni dal francese di Federigo Tozzi prevede nomi e testi significativi. Se nell’Archivio Tozzi si conservano ancora gli originali della Principessa Maleine di Maeterlinck e di Una notte al Lussemburgo di Remy de Gourmont, se una lettera di Novale testimonia perlomeno di un progetto di traduzione del romanzo La Cathédrale di Huysmans, anche il settore poetico si sapeva dover annoverare prodotti che non fossero solo versioni di liriche di Francis Jammes.
Sta di fatto che tra questi materiali è a suo tempo emerso un importante, testimoniabile rapporto fra Tozzi e l’opera di Charles Baudelaire. Si tratta dell’undicesimo componimento delle Fleurs du Mal, il sonetto Le Guignon, tradotto da Tozzi con sostanziale fedeltà alla lettera dell’originale.
La carta dell’autografo è conservata in un inserto con datazione di mano di Glauco Tozzi – il figlio dello scrittore, editore delle sue opere – «Roma, luglio 1917». Ciò rende plausibile il collegamento con un esemplare delle Fleurs du Mal posseduto da Tozzi e da lui datato nel frontespizio «Roma, luglio del 1917». Ma anche l’indicazione di Glauco Tozzi non esclude una frequentazione delle Fleurs da parte dell’autore ben più antica, arretrabile almeno, stando alle attestazioni dei Registri dei prestiti della Biblioteca Comunale di Siena, al 4-8 maggio 1905: Tozzi, allora, era appena ventiduenne.
Certo è che la scelta di una poesia da tradurre come il sonetto Le Guignon di Baudelaire appare per Tozzi pertinente e ad ogni altezza del suo percorso artistico calamitante: un testo da affinità elettive, si direbbe, in cui lo scrittore senese, fino dal primo verso, è irresistibilmente richiamato ad una propria poetica, ai fondamenti stessi del suo bisogno espressivo: posto come di fronte ad uno specchio.
«Pour soulever un poids si lourd»: la condanna cui il ribellistico figlio di Eolo è sottoposto è la medesima che Tozzi sta continuativamente scontando da sempre. La sfortuna (le guignon) e l’inferno derivabili da un testo di Baudelaire si attualizzano. Subito si riattiva la dicotomia manichea efficiente in Tozzi tra anima e opaco involucro terrestre, testimoniata dagli antichi documenti epistolari indirizzati alla fidanzata (si vedano gli ostacoli corporei alla pienezza dell’amore e alla «vera vita delle sensazioni» nella lettera del 3 gennaio 1908) e, splendidamente, da tutta un’opera.
Pesantezza e leggerezza. Anche l’impegno lirico certifica l’«enorme martirio» subìto. Servirà affidarsi alla scrittura? L’Arte tenta di reagire a un disagio, di rispondere, smentendo l’assurda arbitrarietà di ciò che il Tempo è disposto a concedere al nuovo Sisifo, mitologico «uomo dei dolori» pronto a reimpostare l’imperscrutabilità del proprio esempio di disubbidiente punito secondo l’elementare dialettica luce/tenebra, qui ravvisabile nel prosieguo dei versi, dislocata nella prima terzina del sonetto.
Procedere nel buio, con gli occhi chiusi, in cerca della «bocca che possa parlarci dolcemente» (La gioia, in Barche capovolte), sperando di sanare la scollatura nominalistica che sussiste tra le parole e le cose, di riconquistare l’anima… Les Fleurs du Mal e le Lamentazioni finiscono in Tozzi per confondersi, al pari della scienza di William James e dell’ardore mistico di Santa Caterina.
L’Arte è lunga, il Tempo breve (dall’aforisma di Ippocrate «Vita brevis, ars longa» ai sonetti di Alfieri e Foscolo: «Lunga è l’arte sublime, il viver breve», CLXXXVII, «Breve è la vita e lunga l’arte», XII), il cammino di risalita dall’abisso impervio e faticoso, gli strumenti cui ricorrere per tentare l’impresa inadeguati: fatalmente imperfetti.
All’insegna di una sorta di antiparnassianesimo biologico, lontano da marmoree compiutezze e vantabili impassibilità e fiducioso invece nelle prospettive dal basso, Tozzi e Baudelaire si ritrovano assieme, partecipi di una medesima totalizzante sfida linguistica della nostalgia e della consapevolezza, se il poeta delle Fleurs, come ha scritto con pertinenza Luigi de Nardis, «crede in un mondo di forme perfette e esistenti da sempre, irraggiungibili come i gioielli sepolti nel cimitero solingo della sua anima, a cui tenta di avvicinarsi per scandagli, talvolta anche usando rabbiosamente la zappa». Di più: «La sua ossessione compositiva nasce proprio da questa paziente rabbia di ricerca nel profondo, verso le architetture di una vita anteriore, verso gli archetipi della bellezza».
Sono definizioni travasabili. Non a caso, pure all’interno di un singolo testo tradotto, l’universo precipitato tozziano, perennemente anelante a redenzioni purificatrici e ricongiungimenti a un rigoglioso podere di partenza, torna suo malgrado a profilarsi nei termini di un unico, protratto day after della cacciata: granitico allestimento di inganni che «trasuda il delitto» (Macchia), criptico scenario di mere possibilità sigillate, di «misteriosi atti nostri» solitari e sepolti, inesplicabili e solo rappresentabili nelle loro contraddittorie emergenze di superficie.
«Era una mattina d’estate – si legge in una prosa di Bestie –, calda e accecante. Camminavo piano, e sempre di più la natura mi pareva un sogno immenso della mia anima. Il cuore mi batteva di contentezza». Nessun «tamburo velato» al seguito di «marce funebri», come nel testo delle Fleurs. Ma anche la natura di Le Guignon promette e si ritrae, indica e si nasconde, è immobile e ferisce.
Il che equivale a dire Tozzi assieme a Baudelaire e assieme a Leopardi, i grandi inauguratori del moderno. Ciò nonostante il desiderio baudelairianamente superbo dell’Opera, analogamente a quanto accade tra i confini del piccolo cimitero di campagna che ritroviamo nelle pagine tozziane di Adele (luogo dimenticato da tutti, ma non dallo scrittore che ne registra puntualmente il fascino), continua a inviare segnali, a svolgere le sue ambiguità mortuarie di attrazione e di potenziale rivalsa: il suo profumato secret, il suo luccichio prezioso e inaccessibile: «È un cimitero che non ode se non i canti degli uccelli», «tutto aperto all’infinito».
Marco Marchi
Per sollevare un peso così greve…
Per sollevare un peso così greve,
Sisifo, ci vorrebbe il tuo coraggio!
Benché abbia cuore per mettermi all’opera,
È l’Arte lunga e in vece il Tempo è breve.
Lontano dalle sepolture celebri,
E verso un cimitero ch’è isolato,
Il cuore come un tamburo velato,
Battendo va dietro le marce funebri.
Molti gioielli dormono sepolti
Nelle tenebre folte e negli oblii,
Lontano dai picconi e dalle sonde.
E molti fiori a dare son restii
Profumi dolci come sogni avvolti
Da grandi solitudini profonde.
Le Guignon
Pour soulever un poids si lourd,
Sisyphe, il faudrait ton courage!
Bien qu’on ait du coeur à l’ouvrage,
L’Art est long et le Temps est court.
Loin des sépultures célèbres,
Vers un cimetière isolé,
Mon coeur, comme un tambour voilé,
Va battant des marches funèbres.
Maint joyau dort enseveli
Dans les ténèbres et l’oubli,
Bien loin des pioches et des sondes;
Mainte fleur épanche à regret
Son parfum doux comme un secret
Dans les solitudes profondes.
Charles Baudelaire
(il testo di Baudelaire è tratto da “Les Fleurs du Mal”, 1857)
I VOSTRI COMMENT
Per Antonella Bottari
“Da grandi solitudini profonde”. Apogeo di sintesi poetica in Tozzi che raccoglie il testimone di Baudelaire non appropriandosene, ma incidendo su pietra, come il suo eteronimo, verso dopo verso, il male e la distanza dal mondo. Come rammenta Omero di Sisifo, re crudele, così il Tempo non dà luogo ad ulteriori movimenti del verso,se non il riscriverli in una corrispondenza di amorosi sensi di foscoliana memoria. Poichè se le occorrenze dei singoli termini sconfinano il campo semantico loro assegnato, Tozzi, nel tradurle ne conferma la potenza significante e rilucente come pietra levigata dall’uso, ma inesausta.
Yumiko Nakajima
Quando leggo “Le Guignon” di Baudelaire che tradotte da Tozzi, mi sento la forte influenza da Baudelaire sulle opere di Tozzi, soprattutto “Maiolica dipinta” negli “Specchi d’acqua”. Nelle poesie di Baudelaire e di Tozzi si sentono il mondo oscuro e solitario, il suono che ha rotto il silenzio (l’uccello nero gracchia e un tamburo velato dietro le marce funebri), il peso come il senso della colpa e le cose dimenticate e sepolte. Mi sento la velocita’ del tempo (come il flusso della coscienza, che rimane sepolto a lungo sotto la soglia, appare un attimo, il pensiero jamesiano) leggendo le parole come Sisifo e abbarbicto all’erta. La luce della luna che penetra nel buio e riflessa sullo specchio d’acqua (della fontana) nella “Maiolica dipinta” di Tozzi, mi fa pensare al paesaggio di Siena.
tristan51
In un “universo schiacciato” come quello che l’opera di Tozzi ci propone è inevitabile ravvisarvi un forte anelito alla leggerezza, alla liberazione dai vincoli della pesantezza avvertita come una inesorabile condanna: il desiderio di un’anima. È così che, invece di rivolgersi ancora una volta alla propria anima incerta perfino della propria esistenza, Tozzi a chiusura di “Bestie” chiede ad una naturale e letterarissima allodola di prendere la sua anima, di farla finalmente volare.
tristan51
Ripensando a Tozzi: anche la scelta di un autore da tradurre, e in particolare di un testo di quell’autore da tradurre, costituiscono sicuri elementi di poetica.
Antonietta Puri
Tozzi deve essersi sentito molto vicino a Baudelaire, se oltre ad averlo letto, amato e approfondito, si è cimentato nella traduzione della sua undicesima Fleur, “Le Guignon”, esemplare forse per cogliere gli elementi comuni tra i due autori così diversi per tempi, spazi, formazione e dipendenze letterarie, a cominciare dall’esistenza travagliata di entrambi e da una visione inclemente e al tempo stesso pietosa e commossa dell’uomo, con le sue bassezze e sublimità, le sue cadute e i tentativi di risollevarsi, l’oscillare perpetuo tra il tedio e l’ideale. C’è in entrambi la coscienza dell'”esiliato” e quindi l’estraneità del mondo in cui vivono: ogni tentativo di elevazione sembra in essi fallire, con il ritorno all’accidia e a una frustrazione comunque non accettata. Il loro modo di esorcizzare il fallimento è diverso tuttavia: mentre il poeta francese lo fa perseguendo con religiosa dedizione l’ispirazione alla bellezza e all’arte, Tozzi prende chiara coscienza del proprio male con la virile volontà di superarlo, pur senza giungere ad una redenzione vera e propria. Tanto in Baudélaire, quanto nello scrittore senese, le parole sono vere, perché sgorgano da una continua e profonda meditazione sull’intero contesto delle loro esistenze: il primo, conclamato “Poeta impeccabile…” da T. Gautier, colui che fa dire a Hugo aver “dato nuovi meriti al cielo dell’arte” e un Tozzi… un poeta? Oh, sì! Soprattutto – secondo me – in “Bestie” dove “Fin dall’inizio…invoca la libertà, la dolcezza, il ricongiungimento” con “…gli sguardi di un’anima già avvertita ‘piena di occhi chiusi’. ” (Marco Marchi, “Bestie”, 1994). Qui, pur nello stile frammentario insolito rispetto alla struttura narrativa tradizionale, si coglie – più che una serie di spunti per riflessioni filosofiche – una visione metafisica del paesaggio di sfondo, con un forte slancio lirico che si ritrova anche nelle opere prettamente narrative in cui, ad una prosa asciutta e a una lingua scarna, degne di un grande scrittore, si mescolano una grande finezza lirica e delle suggestioni uniche.
Elisabetta Biondi della Sdriscia
Se nei romanzi e nelle novelle sono i personaggi tozziani a vivere attanagliati da un’angoscia esistenziale paralizzante – espressa con la straordinaria modernità della nuda registrazione dei fatti, senza nessi di causalità, senza spiegazioni, con il linguaggio franto della paratassi che Tozzi utilizza al massimo delle possibilità espressive – nella produzione poetica è l’autore in prima persona a parlarci con versi intensi e rivelatori dalla sonorità difficile, che dalle suggestioni dell’Inferno dantesco sembrano trarre istintiva ispirazione. Dante, dunque, e Leopardi, ma non solo e nella presente versione della poesia di Baudelaire, tanto sentita affine da volerne affrontare il cimento impervio della traduzione, ritroviamo temi tozziani ineludibili.
Ancora per Yumiko Nakajima
E’ bellissima la tecnica di traduzione di Tozzi e il collegamento fra il mondo baudelairiano e tozziano nell’espressione delle ombre, dell’oblio, della solitudine e del buio che sono contrasti ai gioielli sepolti in fondo.
Marco Capecchi
Tozzi non rabdomante, ma scrittore consapevole della propria arte. Il suo misurarsi con la cultura europea ne è, assieme alle letture fatte e testimoniate, una prova incontrovertibile. Dispiace che questo centenario della morte passi senza un approfondimento e uno scavo su uno scrittore che ad ogni reiterata lettura offre spunti di riflessione e appare sempre moderno e contemporaneo. Quasi scrittore asintotico nel senso che illumina e non si fa raggiungere.
Rita Cirillo
Una traduzione che rende perfettamente i temi e le tecniche espressive del poeta francese. Si avverte la consonanza tra i due scrittori e si può apprezzare la poesia del mistero e il simbolismo di Baudelaire.
Isola Difederigo
Nel sistema chiuso, fortemente selettivo e autoreferenziale dell’ars tozziana, anche l’esercizio della traduzione rientra nel progetto di “lettura totale” inglobante l’attività critico-saggistica e quella del Tozzi antologista dei prediletti antichi scrittori senesi; un progetto interessato ad autori e titoli promossi, come esemplarmente avviene in questo caso, a occasioni di autoverifica di una poetica del profondo, al traguardo primonovecentesco di una modernità che in Tozzi – secondo il precetto baudelairiano – “è solo una metà dell’arte. L’altra è la sua eternità”.
Chiara Scidone
Tozzi data la vicinanza sentita nei confronti di Baudelaire è riuscito a fare una traduzione che ha reso giustizia all’originale del poeta francese.Personalmente adoro “I fiori del male” e non poteva essere fatta traduzione migliore.
Damiano Malabaila
Quello proposto da Marco Marchi mi sembra davvero uno degli approcci più filologicamente fondati e allo stesso tempo fecondi per indagare la labirintica, strepitosa e originalissima opera di Federigo. Ed è interessante vedere come il magnetico interesse per Baudelaire, arricchito e controbilanciato dal messaggio leopardiano, passa anche da strade così private come quelle dell’esercizio traduttorio.
Giacomo Trinci
Imitazione, emulazione; tradizione, traduzione. All’incrocio di questo quartetto si gioca il giogo crudele della letteratura tozziana. Un autore colto e “primitivo” insieme, che mette in campo la sua sfolgorante consapevolezza tragica in questo sonetto che trascina in italiano, da una tradizione all’altra, il fraterno sanguinare di Baudelaire. L’autore francese e l’autore italiano si fronteggiano, mescolano le acque, fedelmente tralucono l’uno sull’altro, tanto da evidenziare la straordinaria presenza, “spettrale”, si direbbe, di un Baudelaire italiano d’inizio novecento, pronto ad assimilare la via crucis del poeta francese: donando voce e corpo ad uno spettro aggirante nella modernità appena inaugurata.
Giulia Bagnoli
Come i fiori, che non riescono più ad emanare il loro profumo, e, con esso, a sprigionare la loro bellezza, perché avvolti dalla solitudine, così Pietro, incapace di vedere la realtà, si sente umiliato da ciò che è bello e si avvia verso l’abisso, dove non ci sono più odori gradevoli e tutto è tetro e triste. La bellezza, come possiamo riscontrare anche nei versi di “Spleen”, sta lasciando il posto all’angoscia.
Matteo Mazzone
Tozzi da grande poeta e da grande uomo di cultura ripercorre, inevitabilmente, le scie oscure di un altrettanto letterario passato; e con “l’oscuro” Baudelaire sembra intessere, ora, un prolifico e forte legame di attività comprensiva dello stesso. L’interrogatorio-affermazione da cui tutto parte è “L’Art est long et le Temps est court” – (che ritorna anche in Balzac nel suo “Il capolavoro sconosciuto”): e anche in Tozzi l’arte, cioè il canto lirico – umanisticamente intesa come prosecuzione eterna, pura e gloriosa delle vicende umane – diviene lo strumento principale per porre domande – e semmai a rispondere – alla brevità (e nel caso tozziano direi stringatezza) della vita: cioè che essa può dare, come lo dà, perché e come noi (com)partecipiamo in essa. La modernità di Tozzi consiste, tra l’altro, anche in questo: un’analisi speculativa – che ha il suo illustre antecedente italiano in Svevo – atta a verificare lo scopo della vita umana; e classicamente, come una risposta certa non c’è (se non miriadi e poliedriche varianti approssimanti), così il mezzo più idoneo a questo tipo di indagine rimane la poesia, che con la sua forza creatrice mitiga, appiana, ridistribuisce umori e malumori.
Arianna Capirossi
Assai interessante questa prova traduttoria di Tozzi sul testo di Baudelaire: rimanendo fedele alla lettera dell’originale, Tozzi assimila perfettamente i temi baudelairiani, rivelando una sostanziale affinità con lo stile e la sensibilità del francese. Troviamo tuttavia gli adattamenti resi necessari dalla lingua di arrivo. Le immagini dell’originale prendono nuova vita al ritmo dell’endecasillabo, accentuando la loro solennità. Tozzi, seppur conservativo, in conclusione propone una piccola variazione, necessaria al rispetto della metrica e, nel contempo, soluzione metaforicamente efficace: il “secret” baudelairiano si tramuta in “sogni avvolti / da grandi solitudini profonde”; sono le stesse “solitudes profondes” dell’originale, però ancora più “grandi”, inquietanti, sublimi. Il traduttore dunque, partendo dal componimento francese, crea un ritmo nuovo e plasma un’immagine inedita, riuscendo a esaltare la tematica trattata, pur nel contesto di una traduzione altrimenti “bella e fedele”.
framo
Ardua impresa sprofondare nei recessi delle solitudini più recondite per il grande poeta versato sulla tragedia dell’umano esistere, nel tentativo immane di (ri)salir la china. E ciò che in poesia si paventa come opera ostica e complessa, per tematica (l’angoscia per il dolore) e forma, in casi rari e luminosi come questo – espressione di spiriti eccezionali, accomunati da un non dissimile sentire -, può produrre aperture dalla traducibilta’ infinita (Dante … Leopardi … Baudelaire … Tozzi …).
Pietro Paolo Tarasco
Il mio felice incontro con la poetica tozziana è sempre vivo nei miei pensieri. Indimenticabili le sue cicale come “balocchi vivi dell’estate” e poi, ascoltandole, “vorrei non morire mai”. Tozzi data la vicinanza sentita nei confronti di Baudelaire è riuscito a fare una traduzione che ha reso giustizia all’originale del poeta francese. Personalmente adoro i fiori del male e non poteva essere fatta traduzione migliore.
Duccio Mugnai
Ogni contatto culturale con Tozzi è disvelante, molto spesso meraviglioso. A parte il fatto che tutte le volte che lo leggo ripenso alla mia gioventù universitaria, più invecchio e più capisco come letteratura e poesia, scrittura e lettura, siano veramente, come erano per lo scrittore, profondissimi fondamenti di vita, che ci strappano dai nostri incubi più profondi, li materializzano e li distruggono. E’ anche un approccio chiaramente riconducibile alla cultura filosofica e psicologica dello scrittore. Misurarsi poi, direttamente, con un sonetto di Baudelaire, con la sua traduzione e attualizzazione biografica-personalistica, ci fa capire ancor di più l’anima e l’arte di Tozzi. La sua “scrittura crudele”, impietosa nello scandagliare se stesso, sadicamente e con furore compositivo, ci pone di fronte ad uno specchio che spesso produce dolore, rabbia, delusioni o, in generale, gli stati dell’anima più nascosti e inconfessabili. Ma il martirio dell’uomo-personaggio Tozzi è troppo grande per essere taciuto e finisce per diventare strumento di consapevolezza e liberazione nella rappresentazione narrativa più cruda. Ed è vero ciò che scrive Baudelaire e Tozzi traduce: “Molti gioielli dormono sepolti / Nelle tenebre folte e negli oblii, /Lontano dai picconi e dalle sonde.”. Così nasce la letteratura come vita, anche se il Tempo è breve e l’Arte troppo grande.
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L’ARCHIVIO DEI POST
INDICE PER AUTORE novembre 2024
APOLLINAIRE La notte di Apollinaire
BAUDELAIRE L’armonia della sera. Charles Baudelaire
Tozzi traduce Baudelaire
BERTOLUCCI Lasciami sanguinare. Attilio Bertolucci
BUFALINO La dedica di Gesualdo Bufalino
CAMPO La clessidra capovolta. Cristina Campo
CARDUCCI La nebbia a gl’irti colli. Giosuè Carducci
CERNUDA Te l’ho detto con il vento. Luis Cernuda
EDUARDO L’amore secondo Eduardo
HIKMET Hikmet e l’assenza
HUGHES La canzone d’amore di Ted Hughes
JÚDICE La materia della poesia. Nuno Júdice
KEATS Fulgida stella. John Keats
LEOPARDI Re delle cose, autor del mondo. Giacomo Leopardi
LORIA Il falco e l’aquila. Arturo Loria
MERINI O malaccorto amore. Alda Merini
MORANTE La lettera d’amore di Elsa Morante
ORAZIO L’attimo fuggente. Orazio
PASOLINI Anniversario Pasolini POST DEL MESE
‘Notizie di poesia’. Novembre, il post del mese (con i vostri commenti)
PASTERNAK La vita in versi. Boris Pasternak
POUND Pound e Francesca
PRÉVERT Questo amore. Jacques Prévert
PUSTERLA Il Premio Betocchi 2024 a Fabio Pusterla
SALINAS Vaghe soglie dell’anima. Pedro Salinas
SBARBARO L’anima stanca. Camillo Sbarbaro
TOZZI Tozzi traduce Baudelaire
TUROLDO Lo splendore e la tenebra. David Maria Turoldo
UNGARETTI Fine della Grande Guerra con Giuseppe Ungaretti
VIANI Vita e morte di Lorenzo Viani
WITHMAN Whitman e il Capitano
]]>Firenze, 27 novembre 2025 –Poeta, saggista, traduttore, Fabio Pusterla è nato a Mendrisio nel 1957. Laureato in Lettere all’Università di Pavia, vive e lavora tra la Lombardia e la Svizzera, dove insegna lingua e letteratura italiana al Liceo cantonale e all’Università di Lugano.
Antico gioco
o frammento di utopia
Quello che spia, quello che ghermisce
annusa il suo trionfo. Tutti o quasi
ha chiuso nello sbarro e solo scruta
subdolo l’ultima preda fuggiasca
forse tremante nel folto
e smarrita. Si aggira felpato
con occhio di vespa e di drone
attende al varco certo
di sé e degli altri
padrone.
Ma da una forra erompe
alle sue spalle involontario l’eroe
cuore in gola e speranza
semiluce boschiva e mano tesa
verso l’albero d’aspra scorza
verso la tana del mondo dove urlare
con tutta la forza la voce
il salvitutti gioioso
che libera dall’incubo,
la fragile utopia che non finisce.
*
Nell’afa
I cervi, nell’arsura
di questo luglio d’afa,
scendono nottetempo al lago a bere.
Escono dai boschi verticali
prendono una valletta dirupata
e arrivano al Profondo,
dove un po’ d’anni fa
una donna aveva scelto di sparire per sempre,
certo non senza segrete ragioni e dolori,
riermergendo un mattino bianchissima
gonfia accanto a una barca ormeggiata
fra le alghe.
Lì i cervi bevono a lungo e forse guardano
lungamente quell’acqua che appena sciaborda
sotto di loro, muta. Ma uno, maestoso,
deve una notte aver sbagliato
senza colpa percorso:
l’hanno visto i vicini che entrava
nel nostro giardino deserto. Poi, tentando
di risalire alla strada si è incagliato
con le corna nelle sbarre del guardrail
ed è rimasto a scuotere frenetico la testa
per lenti interminabili minuti. Un passante
non ha osato intervenire, impaurito, e infine il cervo
con un ultimo scossone si è strappato
da quella trappola oscena, è corso via
in lieta ritrovata nobiltà,
salendo al folto.
Sui tetti corrono le faine ebbre di luna
con strida di gioia o d’inquietudine.
*
Acqualuce
Due che si incrociano
camminando lungo un torrente ammutolito
ciascuno verso il suo dove faticoso, in senso inverso,
su rotte divergenti, oppositive, intersezioni negate.
L’acqua sta sotto invisibile i muri
il traffico adunghia la strada. Nel saluto
quasi impacciato c’è una luce momentanea
un’acqualuce insonne sotto parole non dette.
Poi le sbarre si richiudono
ognuno continua il suo andare.
Il corridoio del dovere conduce
al suo deserto mare.
*
Altopiano dei fuggiaschi
A Pascal Riou e Sarah Brunel
Che animale sei
quanti denti hai?
Quali prede vuoi
come squarterai?
Quando arriverai
mi nasconderò.
Se mi troverai
io ne morirò.
*
Non mancano i motivi della fuga.
Mai mancati.
Chi ha perso tutto chi non ha più niente
esce per strada e scappa.
Su secca terra o mare, in un ventre di lupo,
per aspre vie e selvagge
sempre sentendo cupo venire il galoppo
dietro le spalle, di quelli che arrivano armati
montando draghi e cinghiali,
incubi truci.
*
Ma qui la terra è umida, sicura,
nera la storia ha insegnato certe cose.
Ugonotti, bambini ebrei, tutto un paese
che accoglie, che nasconde lungo i secoli
per boschi e per ghiacciaie
dentro caverne o nei cuori,
provando a essere giusti, a non tradire.
Sull’altopiano dei fuggiaschi
forse nacque La peste sotto ruote di nibbi.
Poco lontano una chiesa romanica
ammette ogni preghiera e nessuna religione.
A ognuno il suo racconto inenarrabile
a ognuno la sua parte di fatica, la sua croce.
Fabio Pusterla
(da Tremalume, Marcos y Marcos, 2022)
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