Ci crede il giusto sul suo nuovo progetto da solista che, detto per inciso, non è affatto male. Ma quando la nostalgia ti avvolge non ti lascia più. Soprattutto se è musicale e se hai fatto parte dell’ultima grande band inglese, gli Oasis. Noel Gallagher accantona, per una volta (finalmente), l’eterna disputa, mai troppo elegante nei toni, con il fratello Liam. E sul Daily Mirror infila una serie di ovvietà, anche poco coraggiose, e un’unica verità che vale l’estensione e la lettura di quel pezzo di giornale. “Gli Oasis e i Blur sono le ultime due grandi band alternative inglesi”. Dargli torto è pressoché impossibile, perché incolla il concetto all’evidenza. Oasis e Blur arrivarono anche in cima alle classifiche di vendita. Un po’ quello che accadde in Italia, fine anni ’90, con i Csi. Con Tabula Rasa Elettrificata il gruppo di Giovanni Lindo Ferretti e di Massimo Zamboni, allora la loro era davvero un’unione musicale di fatto, si ritrovò al primo posto in classifica e perfino il Tg1 dedicò un servizio a quello che era e resterà, molto probabilmente, un evento. Da qui a dire che il rock sia morto però, ce ne corre. C’è chi ne ha celebrato forse in anticipo il funerale. Ma nell’epoca estrema della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, soprattutto musicale, dove si stenta, con difficoltà, a riconoscere che un pezzo spacciato come un inedito dei Radiohead è un falso, manca soprattutto il coraggio. Oasis e Blur non furono certo campioni di coraggio nelle scelte. Però riuscirono a equilibrare il loro essere alternative con lo showbiz. E definire ora gli Oasis, frettolosamente, come dei bravi cloni dei Beatles, sarebbe fare un torto a entrambi i gruppi. C’era anche una scena dietro che adesso, forse, non c’è più. Ma quando in Inghilterra si cominciò a strizzare l’occhio all’elettronica e a una coniugazione possibile con il rock istituzionale, fatto di chitarre (soprattutto), basso e batteria, chi lo fece si prese un rischio. Ma un rischio che produsse anche una bella energia vitale che prendeva un po’ dalla solida cultura rock e all’esistenza di una sottocultura (direttamente collegata) di patiti della musica, un po’ dalla cultura delle discoteche, spingendosi, agli estremi, anche alle sonorità sparate a tutto volume nei rave. E c’era soprattutto un pubblico che ne aveva fatto la propria colonna sonora. E così, pur non avendo la stessa discografia dei Rolling Stones, Stone Roses e Primal Scream, tanto per citare un paio di esempi, hanno fatto, a loro modo, la storia del rock che era di per sé mutante. Definire qualcosa rock ora, è difficile. E infatti Noel si lascia andare a un attacco frontale a “Top of the pops”, in cui dice: “Chi va lì, fa sempre la stessa musica: un po’ di rap mescolata con un po’ di R’n’B”.  Ma tutto ciò non significa che la musica alternativa che un tempo andava in classifica, ora non esiste più. Diciamo che è più la nostalgia che prende il sopravvento, anche perché tutte queste reunion, l’ultima quella annunciata dei Soundgarden, suonano come delle vere e proprie mozioni degli affetti. Ma non producono le stesse sensazioni. E allora, spulciando un po’, capita di imbattersi in un’autoproduzione che sa regalare ancora buone cose e che ha saputo anche trasformare il cantautorato italiano (gli esempi non mancano: dal forse fin troppo celebrato Vasco Brondi con Le Luci della Centrale Elettrica al re dei calembour Dente), rendendolo meno rigido nelle sue forme. Certo, contro la nostalgia non si può far molto. Però sperare di vedere, un giorno, su un telegiornale un servizio su un “dischetto” di una band da club arrivata in cima alle classifiche, non fa mai male.