Non lo so quanto valga interrogarsi (ancora) utilizzando coordinate ormai polverose sulle (presunte) virate di Giovanni Lindo Ferretti. Domani compie 60 anni. Ieri era alla festa del “Fatto quotidiano” e la prossima settimana sarà ad Atreju dai giovani della Meloni e di Fratelli d’Italia. Pur provando a unire tutti i puntini e alambiccandosi in figure che non hanno nulla a che vedere con la geometria euclidea non si riesce a capire che ne venga fuori da un cammino così ravvicinato e di per sé inconcialiabile: dalla festa del giornale fustigatore di Berlusconi a quella di una destra che è ancora in cerca d’autore. Non c’è confusione. E non c’è nemmeno l’essenza del voltagabbana in Giovanni Lindo Ferretti e si badi bene questa non vuole essere un’apologia di Ferretti. Non ne ha bisogno. Sa difendersi e molto bene da solo. Certo, se ci si ostina a ragionare con una dicotomia ideologica, dando per scontato (forse sbagliandosi) che il Fatto Quotidiano, pur essendo un giornale, profumi di battaglie di sinistra, verrebbe dai suoi fans più superficiali “tifare il Fatto” e chiudere gli occhi di fronte alla partecipazione alla festa di un movimento giovanile di destra. Ma siccome si dovrebbe tifare “rivolta” e Ferretti lo fa da una vita e rivolta non può essere per forza (e a maggior ragione ora) un concetto di esclusività di una sinistra che non c’è più e che non rappresenta il suo popolo, il Ferretti va interpretato con il solo strumento logico che lui ha seguito per tutta la vita: la provocazione. Ferretti ama provocare. E forse la sinistra in generale – il centrosinistra nel particolare – dovrebbe provare a interrogarsi su quello che un “cattivo maestro” (così potrebbe essere definito con una vulgata, purtroppo troppo in voga, nei confronti degli irregolari) dice da un po’. A 60 anni Ferretti ha ancora molto da dire, come ampiamente dimostrato l’altro giorno alla festa del Fatto. Anche se ormai le sue canzoni rischiano di non avere più quel potere di fascinazione che avevano un tempo. Ma “A tratti” che l’ha accompagnato l’altro giorno quando è salito sul palco della Versiliana resta, in maniera inequivocabile, il manifesto della sua carriera e della sua vita. Non ha rinunciato – pur con diversi modi che prevedevano anche il rifugio (il buen retiro) sui monti Reggiani – ai riflettori. Ma ha sempre gridato: “Non fate di me un idolo o mi brucerò”. E’ questo antico vezzo – rigenerato nell’ultimo ventennio dalla personalizzazione della politica – di cercare un salvatore della patria sempre e comunque (talvolta anche dovunque) che porta sempre più spesso a giustificare quello che a volte giustificabile non è. Perché si seguono quelle coordinate di appartenenza ideologica che sono sempre più limitate. Ferretti quando si dice Ratzingeriano – dopo aver dedicato canzoni al monaco obbediente Giuseppe Dossetti – fa accaponare la pelle a chi ha sempre creduto che i Cccp fossero qualcosa di più di quella paccottiglia da Armata Rossa che portavano sul palco e che in qualche maniera giustificasse il socialismo reale. Ma che probabilmente, pur sforzandosi a restare nel campo meramente musicale, erano effettivamente qualcosa in più di un gruppo che si definiva di punk filosovietico ma non come li inquadravano gli ascoltatori più fedeli alla linea (ma si è fedeli alla linea, come cantava appunto Ferretti, anche quando la linea non c’è) e che proprio per questa natura più che un elogio alla Russia era un modo per infilarsi negli ingranaggi di un’ortodossia fin troppo dogmatica. Ma senza essere”biechi” riformisti.  Non è revisionismo – attenzione questo – né di un gruppo musicale né di una storia culturale (dai Cccp fino ai Csi) davvero rivoluzionaria per questo paese. E se si scopre poi che, al netto di tesi comunque difficili da giustificare come quelle di Ratzinger che impelagavano la chiesa in un oscurantismo quasi d’antan, che il vero rivoluzionario è Papa Benedetto XVI che, da tradizionalista, lascia il soglio pontificio; forse il nuovo disegno di Ferretti – sempre che possa delinearsene uno per quelle coordinate che ci imponiamo di utilizzare – ha un senso. Come se si riprende in mano un vecchio disco dei Cccp e si riascolta “Madre”. Una preghiera. Non necessariamente laica. Ecco, chi sa provocare riesce anche ad anticipare i tempi e dà un senso alle cose. Ora Ferretti si è ricostruito il suo mondo in montagna. Cavalli da allevare, una vita che scorre seguendo i ritmi della terra e senza stravolgerli, niente cellulari, nessun aggeggio tecnologico (tranne quando serve per la sopravvivenza). E un rapporto con la musica che non è come potrebbe sembrare quello di un “musicista contabile”: “faccio concerti per mantenermi”. Sì, Giovanni Lindo Ferretti fa concerti per campare, ma lo fa – come dice lui – come lo facevano i suoi avi, andando in giro per il paese. Certo, le luci del palco gli illuminano ancora la faccia. E il dubbio  che questa etica da “piccolo borgo antico” sia solo di facciata, c’è ogni qualvolta ci chiediamo come sia possibile che riesca a vivere così e perché lo faccia. Poi quando lo senti parlare, t’incanta. Magari non ti convince. Riconosci che non è lui che potrà salvare questo paese, ma ti affascina ancora (e non solo perché è stato un tuo mito giovanile) come quando si dibatteva sul palco ai tempi di Tabula Rasa Elettrificata e si scagliava contro la tecnica. Purtroppo, questi sono tempi tecnici che dimostrano tutti i propri limiti. E di un irregolare c’è sempre bisogno.