A quattordici anni credi che esistano solo i Nirvana. Anche per darti un tono, ovviamente, con gli altri. Per dirti davvero alternativo però – siamo nel 1994 (l’anno della morte di Kurt Cobain) – bisogna sostenere che “Bleach” è il disco migliore dei Nirvana. Così, giusto per confermare una sorta di primigenio ascolto del gruppo.  “Can you feel my love buzz?”. Forse, non lo so. E insegui giornate sempre uguali, girando negozi di dischi ed evitando accuratamente di mettere mani e cervello sulle versioni di greco di Senofonte. Poi, se non hai in casa un padre rockettaro, uno che “ideologicamente” non si è fatto risucchiare dalla retorica del ’68, magari non hai ancora fatto la conoscenza con Lou Reed. Voce profonda, ma nel suo caso le sigarette non contano, ha fatto peggio: ha ingurgitato e si è iniettato tante schifezze. E’ la voce della vita che chiede di saldare i conti: di quel reale che non è sempre razionale come ha teorizzato Kant e da cui ti mette in guardia il tuo professore di filosofia al liceo. Beh, se non hai un genitore così, prima o poi deve imbatterci comunque in Lou Reed. A maggior ragione se impili minuziosamente i tuoi cd e sai chi sono i componenti dei Soundgarden e consideri Seattle, non la capitale del grunge, ma di una rivoluzione musicale che è in corso (“in culo alla tecnica”, proprio come il punk dieci anni prima). E quando ti ci imbatti, scopri che lui sì è la voce dei Velvet Underground, ma è anche molto di più. E’ una guida che ti conduce alla scoperta di un mondo di cui ignoravi l’esistenza. Perché la tua prof di storia dell’arte, al liceo, non ti parlerà mai di pop art. E di Andy Warhol. Ma quella banana sbucciabile che dice “slowly me peel” è lì a indicarti una via nuova. Che il rock è strutturato. Ed è qualcosa più di una moda passeggera, di accordi di chitarra che si infilano in giri di basso e in rullate di batteria che conducono alla perfezione di una canzone. Perché sì, esistono anche gli archi. I violini non sono roba solo da musica classica. E sanno essere più rock di abrasivi riff di chitarra. Magari se ancora non ti sei imbattuto nei Velvet Underground, l’hai scoperto nell’Unplugged dei Nirvana (1994 su Mtv a pochi giorni dal fatidico giorno in cui Kurt Cobain volerà per sempre via). Ma quando rigiri tra le mani quel cd con l’adesivo “special price” tra le mani e con quel giallo della banana che risalta sulla copertina bianca, hai già superato una sorta di linea d’ombra del rock.

E sono quindici anni. E allora non smetti più di interessarti a che cosa succedeva in quegli anni, in quella New York lì, dove Warhol aveva la sua factory e i Velvet se ne uscivano con un disco che sarebbe diventato leggenda, si sarebbe strutturato, proprio come accade per un buon vino, col passare degli anni. E ora sei nel pieno della storia. Perché i Velvet Underground sono Lou Reed e viceversa. Da accanito ascoltatore ti dedichi al gossip postumo: vuoi sapere perché hanno fatto quattro soli dischi e poi si sono dissolti e perché ognuno ha litigato con l’altro e viceversa. Ma è il rock e una band non entra nella storia se non si separa, se non litiga, se non fa qualcosa che renda umano quello che umano non sembra essere, se si ascolta solo la musica, provando a entrare dentro alle canzoni. E così da “ricercatore del rock” ripercorri la carriera di Lou Reed. Il suo essere un eroe maledetto, un maudit del rock, ha un potere di fascinazione che supera qualsiasi altra storia. Leggende o mezze verità? Il sangue sporco, pieno di schifezze, ripulito con cadenza quasi maniacale da burocrate. Leggenda, appunto, o verità? Però Berlino, quella Berlino lì da dove riparte: l’abisso de “I ragazzi dello zoo di Berlino”, ma anche la creatività diffusa. Tutti lì nella stessa città: Lou Reed, David Bowie e Iggy Pop. Hai dimenticato qualcuno, c’era anche Brian Eno. Quel disco che ti fa dire: “forte”. E’ “Transformer”e  c’è anche “Perfect day” che nel frattempo è finita in “Trainspotting”, il film. E sei già maggiorenne. Il sogno di bere una sangria nel parco e la puzza sotto il naso, appena scopri che esiste “Berlin”, roba da esperti. Un concept album, il concept album più rischioso e riuscito. Ancora gli abissi della droga che trascina giù fino all’inferno. Senza nemmeno bisogno di “aspettare il mio uomo” (che poi scoprirai che è il “pusher” in “Waiting for my man”, perché il primo disco dei Velvet Underground ormai l’hai consumato, fai qualche ripasso per essere sicuro delle minime sfumature). Nel frattempo però, il presente dice che lui (Lou) sta bene. Si è ripulito. Fa meditazione e tai-chi. Ma non può essere un eroe positivo. Non è la parte che è stata scritta per lui. Anche se si adopera a lasciare in eredità altre gemme musicali. Come quando si imbatte, per caso, in un bar di New York in questo ragazzone transgender con una voce che sembra arrivare da un altro pianeta. Tanto è bella, tanto è profonda, tanto colpisce indisturbata tutti i sensi, da sembrare irreale. Antony. E gli Antony and the Johnsons sono lì a ricordarti che la musica non può essere mai un sottofondo. E’ davvero la colonna sonora della vita. E nella tua vita ci sono almeno un paio di canzoni di Lou Reed. Non c’è domenica, senza pensare a quel “Sunday morning”, scordandoti in fretta che, i geni del marketing televisivo, l’hanno utilizzata per pubblicizzare una lavatrice. E poi ti ritrovi una sera d’estate a vederlo a due metri da te. Con lui c’è la moglie Laurie Anderson. Dicono che sia anche diventato vegetariano. Fanno una performance dove la musica cede spazio alla poesia. Sembra slam poetry. Ma l’accetti, anche se vorresti trovare sollievo dal caldo con “Sweet Jane”. Ma lui è centrato sul compito. Nessuna concessione. Solo poesia. E allora speri di incrociarlo di nuovo. Magari non in un palasport. In uno spazio aperto, in cui rivolgere lo sguardo al cielo e pensare che “sì, in effetti è un giorno perfetto”, se sei riuscito, pur non facendo meditazione, a placare i nervi, a morderti la lingua, anche senza bere quella sangria. Poi succede che sei diventato grande. Che non sei più uno studente, che hai una laurea con cui non sai che fartene, perché comunque un lavoro ce l’hai. E allora svalichi le montagne in una domenica pomeriggio che avresti potuto tranquillamente passare al mare (e siamo già nel 2007), perché dopo tanti anni Lou Reed rifà “Berlin”. Integralmente, anche con le voci “bianche”. Non puoi perdetelo. E sei lì in una notte che ferma anche la pioggia che aveva provato a intromettersi per rovinare quella notte che non potrà mai essere rovinata. C’è tutto Berlin. Non manca nulla. Lui ha una maglietta attillata, mostra perfino i muscoli. E’ una notte magica. Ti senti più leggero. E non pensi, in quel momento, che non ti ricapiterà più di vederlo dal vivo. Sei anni dopo e lui non c’è più. Ma, mentre tua figlia dorme nella stanza di sopra, nella cuffia gira ancora “Berlin”. L’immortalità a volte non è un concetto così astratto. Anche se, in effetti, non sarà mai più come quella notte ad Arezzo. Buon viaggio Lou.