Essere un genio non è facile. Perché chi lo certifica? Non c’è un comitato dei saggi e nemmeno un Nobel, talvolta, basta per dimostrarlo. A maggior ragione se si parla di musica. Basta essere visionari per essere considerati dei geni? In qualche caso sì, in altri meno. Frank Zappa è uno dei rari casi di genio riconosciuto. Ok, la (presunta) unanimità potrebbe fare indignare chi ha un po’ di puzzetta sotto il naso o ambisce al ruolo di bastian contrario in servizio permanente. D’altronde dissacrare è bello. Ma quando si parla di Frank Zappa non c’è bisogno di dissacrare. Perché vince sempre lui. E’ lui il vero dissacratore, l’iconoclasta del rock. Vent’anni senza l’italo-americano di Baltimora. Uno, certo, sopra le righe. In cui la forma colpiva, ma ti stendeva la sostanza, perché non è questione di “dito medio” o di cantare “Tengo una minchia tanta”, riannodando i fili delle sue origini siciliane (la family Zappa arrivava da Partinico). C’era di più della provocazione a tutti i costi. E c’era qualcosa che uno riesce a capire, anche se quarant’anni fa non era ancora nato, riascoltando i suoi dischi. O imbattendosi in quegli album, cosa ancora migliore, come un incidente di percorso nella propria vita. Succede allora che lo zappiano italiano che l’ha visto dal vivo, ha fatto i solchi nei suoi vinili, non abbia nemmeno bisogno di imbattersi – che ne so – in un Faso degli Elio e Le Storie Tese che ha un look da Zappa e che lo riconosca – come d’altronde tutta la band – nella propria divinità musicale. Però incrociare Elio e Le Storie Tese – che renderanno omaggio a Frank per ricordare che è morto vent’anni anni fa- non è affatto male per un adolescente che ha passato magari, fino al giorno prima, ad ascoltare solo grunge e a pensare – ancora magari – che la musica vera sia quella impegnata, in cui i testi se non sono “espressamente politici” lasciano almeno intendere che possano esserlo. Zappa è tutto il contrario di questo. Era severo nei giudizi delle sue perfomance e di quelle dei componenti della sua band, ma era anche uno cui piaceva cazzeggiare e si divertiva a stare sul palco. Provavano – come hanno fatto per almeno vent’anni – ad appiccicargli una patina da intellettuale. Da sperimentatore. Tanto che anche Stockhausen espresse un giudizio lusinghiero sulla sua musica. Si muoveva tra Stockhausen ed Edgar Varese senza essere così autoreferenziale da dire o solo lasciandolo annusare “quanto sono bravo”. Sapevo di esserlo: batterista, chitarrista e provocatore e tanto molto altro. Non sarà stato la colonna sonora di rivoluzioni sognate o solo pensate, ma i cosiddetti alternativi non facevano nulla per nascondere il poster con la sua foto seduto sul wc. Ma se uno si lascia trasportare solo dalle sue provocazioni, rischia di perdersi la parte più bella. Che è poi quella che conta: la musica. Provare a definirlo e incasellarlo in un genere è impresa impossibile e questo non fa che aumentare il suo potere di fascinazione. Anche vent’anni dopo. Se si fosse candidato, come disse, alla Casa Bianca, probabilmente avrebbe perso un po’ di charme. Ma non disse niente di sbagliato, quando se ne uscì così: “Potrei fare peggio di Ronald Reagan?”.  Meglio comunque alla chitarra. Se, per caso, si dovesse personalizzare il concetto di creatività, quel concetto avrebbe baffi e mosca e una sigaretta infilata tra l’indice e il medio della mano sinistra, perché dall’altra parte c’è, ovviamente, la chitarra.