Le Seeger Sessions di Bruce Springsteen – era il 2006 – non sarebbero mai esistite, se non fosse esistito lui: Peter “Pete” Seeger. Se ne è andato oggi a 94 anni, senza aver mai abbandonato la chitarra. Una chitarra che “sparava colpi che fanno male”, pur non avendo proiettili a disposizione, perché pacifismo e nonviolenza sono state solo due parole dell’infinito vocabolario musicale di questo padre del folk. Si è diviso almeno fino al 1967, l’anno della morte di Woody Guthrie, la paternità di un genere che è molto di più di camicie di cotone garzato o flanella, barbe incolte e voce e chitarra (qualche volta pure un banjo). Quella è moda, buona per sfilare sulle passerelle. Il folk è altro: cultura, musica, tradizione, radici, suoni avvolgenti in grado di regalare calore, ma anche di denunciare un mondo e di tenere viva la speranza che un altro (di mondi) è sempre possibile. Seeger era tutto questo. Basta ricercarlo nelle sue canzoni per scoprirlo e per vedere alternarsi immagini di battaglie per diritti da riconoscere e per affermare una giustizia sociale che ormai è diventato vocabolo indigesto e perfino un po’ retorico nella sua assordante assenza. Pete, non più tardi di cinque anni fa, era davanti alla Casa Bianca a cantare il giorno dell’insediamento di Obama: la speranza per uno che era finito diritto nelle liste maccartiste che qualcosa potesse cambiare anche negli States. Speranza che si è affievolita irrimediabilmente in questi cinque anni.  Ma lui non si è mai stancato di cantare.