Il fascino del maledetto. Ma non solo. Philip Seymour Hoffman non aveva il physique du role della rockstar. Del Kurt Cobain, ad esempio. La sua morte – non solo per la coincidenza del medesimo anno di nascita del leader dei Nirvana (1967) – ricorda fin troppo da vicino la fine di Cobain. Cobain si è sparato in testa (forse, secondo i dietrologi) nel suo cottage. Solo, solissimo. A Philip hanno trovato una siringa piantata nel braccio. Anche lui solo, solissimo. In mutande. PSH è stato l’ultima vera rockstar del cinema, non certo per le sue interpretazioni – splendide, inutile ricordarlo – de “Il Conte” in “I love radio rock” e di Lester Bangs, la più rockstar tra i giornalisti musicali, in “Almost famous”, i due film più musicali della sua carriera. E’ diventato una rockstar per quel modo così smodato, passionale – fin quasi feticista – nell’adorarlo che avevano tutti i suoi fan.

Ci sono oggetti che si fissano nella memoria. Come il cardigan verde slabbrato di Cobain nell’unplugged dei Nirvana a Mtv, c’è l’occhiale indossato da PSH nel Truman Capote di “A sangue freddo”. O ancora quel dolcevita bianco  in “Magnolia”  che connotava la bontà dell’infermiere Phil Pharma. Ok, non c’è stato nessuno negli ultimi trent’anni nel cinema che abbia avuto la capacità di impersonificare personaggi così maledettamente e beatamente diversi come PSH. La sua presenza in un film come marchio di garanzia: sapevi che non era una cagata pazzesca. E infatti il più delle volte era un capolavoro, anche se lui non era il protagonista. Il suo cinema, il cinema di PSH era un modo di intendere un’arte, di trasformarla in qualcosa di reale, di vero, non di verosimile, come solo un grande sa fare. E di provocare emozioni. Ecco perché dopo il primo incontro – fortuito o non – era impossibile evitare quello successivo, anche se la sua era una “particina” (si fa, ovviamente, per dire) che si insinuava nel flusso del racconto, in una trama più o meno contorta.  Era nato per essere adorato, nonostante quel fisico non propriamente da divo. Ma tanta venerazione, tanto affetto non sono bastati a salvarlo dall’inferno quotidiano che l’ha infine risucchiato.