Il mio articolo uscito oggi su Qn (il Resto del Carlino-La Nazione-Il Giorno) a vent’anni dalla morte di Kurt Cobain

Del cold case ha solo l’età: vent’anni esatti tra una decina di giorni o poco più (la notte tra il 4 e il 5 aprile 1994). E nonostante ci si ostini – pervicacemente o solamente illudendosi per non credere al più scontato dei finali – che la morte di Kurt Cobain, il leader dei Nirvana, sia un mistero; la realtà, anche quattro lustri dopo, non sembra dare spazio ad altre interpretazioni che non siano il suicidio. Le foto messe a disposizione ieri dalla polizia di Seattle non fanno altro che confermare quanto fosse tormentato e (auto)distruttivo l’ultimo scampolo di vita di Kurt Donald Cobain. Se la sua vita fosse stato un romanzo, non si potrebbe non pensare ai numeri come segni: 27 anni. Il club dei 27 appunto, come gli eroi e le eroine maledette che l’avevano preceduto: Brian Jones dei Rolling Stones, Janis Joplin e ancora Jimi Hendrix e Jim Morrison. Anche se a Kurt mancava quella lettera J nel nome che era stata considerata una coincidenza così troppo forte per non essere considerata anch’essa un segno. Di misteriose nella fine di Cobain ci sono solo ultime ore che in tanti si sono impegnati a ricostruire. La sua casa discografica, dopo che aveva minacciato di suicidarsi rinchiudendosi in una stanza e poi smentendo di averlo fatto o solamente pensato e dopo l’overdose di barbiturici nella tournée italiana a Roma, gli aveva intimato di disintossicarsi. C’è entrato o forse non c’è entrato mai in quella casa di cura, da cui avrebbe poi chiamato la moglie, Courtney Love, su cui si sono fiondati prima e dopo commenti pesanti e decisamente maligni, associandoli, in una relazione assai pericolosa, alla morte di Cobain. La realtà, purtroppo, è che come un eroe tragico del Novecento Cobain l’ha fatta finita, sparandosi. Prima si era iniettato l’ennesima dose di veleno nelle vene, solo per calmarsi prima dell’estremo gesto. Un eroe tragico che lascia tra le tante frasi dette, quella che sembra fatta apposta per entrare meglio nella sua vita e riassumerla: meglio bruciarsi che spegnersi lentamente. A 27 anni Cobain era un personaggio di culto. Così di culto da fare proseliti negli ascolti e perfino nelle mode. Senza bisogno di avere un Malcom McLaren o una Vivienne Westwood al seguito. Il grunge è tutto questo e molto di più. Un genere musicale in cui esplode una rabbia generazionale, dove la tecnica (come nel punk d’altronde) non è essenziale, ma dove esce fuori un’intimità talvolta così profonda e viscerale che colpisce forte. Kurt Cobain con la sua storia personale lo rappresenta appieno. Ecco, gli anni ’90 sono quelli del grunge e il culto di Cobain è così forte che si potesse fare un censimento su scala planetaria di quante band si sono formate allora, ascoltando i Nirvana, si rimarrebbe sbalorditi. Cobain è un idolo, suo malgrado per quello che inevitabilmente implica questo ruolo. E come tutti gli idoli tende facilmente a bruciarsi. E così è stato.