Non è la primavera. Anche se così potrebbe sembrare. Non è nemmeno colpa di un’irresistibile nostalgia nel vedersi, vent’anni fa, in sella a un Bravo, ascoltando “Smells like a teen spirit”. No, non è questione di odori. E’ questione di percezioni. Cos’è l’eternità – per dirla all’Ustmamò – se gli anni novanta erano tanto tempo fa. Per i certosini del citazionismo, Mara e soci si riferivano al decennio precedente. E Ferretti e Zamboni, quando erano ancora amici e Csi, avevano colto l’essenza della frase nostalgica, piazzandola su l’ultimo e definitivo disco che raccontava la fine dei Cccp. Però, vent’anni fa c’era ancora Kurt Cobain e i Csi erano appena nati e che soddisfazioni avrebbero dato. Brevi, ma intensissime. Se ancora, sotto sotto scandagliando fino al razionalmente scandagliabile, continuiamo a sognare una loro reunion. La questione è che quella musica lì, il grunge e dintorni e la nascente scena italiana, rendevano possibile ciò che sembrava impossibile allora. Certo, ci saranno sempre band più o meno minuscole, di paesotti o di distretti industriali dimenticati dalla longa manus dello Zio Sam che si prenderanno la scena, ma non sarà mai come la soddisfazione di vedere un Kurt Cobain, ridotto già quasi a minimi termini, su Tunnel (Rai Tre) da Serena Dandini. O ancora quattro anni dopo vedere i Csi in testa alle classifiche di vendita. Nel frattempo – e proprio in questi giorni si discute di come lo streaming abbia superato il download – subentra la certezza di come la musica sia diventata sempre più liquida, per utilizzare l’aggettivo più usato e abusato nel nome di Bauman. E così la tendenza del momento è sempre quella di ripensare a “come eravamo”. Forse perché l’Italia ne è una dimostrazione perfetta di paese interrotto. Un paese interrotto vent’anni fa: con energie e impegno che sono stati (parzialmente) canalizzati anche in progetti politici (tipo l’Ulivo) ma che hanno portato a pie illusioni. E adesso ci ritroviamo a fare i conti con il rammarico di non essere riusciti a fare un decimo di quello che avevamo solo pensato e (talvolta) anche sognato. La musica in qualche maniera era arrivata prima. La morte di Kurt Cobain, nell’aprile di vent’anni fa, chiudeva definitivamente un’epoca. Quella del grunge e di una rabbia generazionale che non poteva solo (chiaramente) esplodere in schitarrate furiose e liberatorie, ma che andava canalizzata. E infatti i Pearl Jam, tanto per restare in questo percorso, avevano già cambiato strada. Lasciando l’impostazione grunge per inseguire un modello più da songwriting senza perdere l’essenza della band e rifacendo, inevitabilmente i conti, con i maestri, a cominciare dallo stesso Bob Dylan, più volte omaggiato live. In Italia, con qualche anno di ritardo, si autodeterminava una scena che avrebbe dato da ascoltare e da scrivere almeno per un altro ventennio. I superstiti resistono ancora. Ma ora sono a corto di idee. Così gli Afterhours ripropongono ora il loro più bel disco, con un titolo di per sé eloquente “Hai paura del buio”, rimasterizzato e con canzoni suonate e cantante con ospiti italiani e stranieri. E proprio in queste settimane un’altra band sta provando a rimettersi in piedi: i 99 Posse. Ecco, l’era delle Posse, cavalcando non solo la Pantera, sembra ancora più lontana. Ma ha rappresentato, a prescindere da detrattori della prima e dell’ultima ora e dai cosiddetti puristi in servizio permanente, un modo di fare rap in Italia. E i 99 Posse ritornano (anche loro) con il loro disco migliore “Curre curre guagliò” e ci aggiungono quel suffisso 2.0 che rende tutto più chiaro e che ci allontana, inevitabilmente, dall’immagine di Silvio Orlando, disoccupato, che occupa il seggio elettorale in “Sud”, il film di Gabriele Salvatores (1993). Forse davvero, avevano ragione i Radiohead che in chiusura del decennio (1997), regolavano i conti in casa soprattutto per il futuro e regalavano quello che resta il disco simbolo dei Novanta: “Ok, computer”. Più di un’asserzione, quasi un via libera a come la tecnologia avrebbe rivoluzionato la musica e il suo ascolto. Riuscendo ancora una volta a cogliere il senso del tempo (storico e non necessariamente musicale), ma confermando anche come quelle energie e quella voglia di cambiamento rimanessero in superficie, senza essere canalizzate, e dando ancora di più la sensazione, anche vent’anni dopo, del concetto di interruzione. Soprattutto in Italia. Ecco allora che le operazioni nostalgie che si moltiplicano in questo periodo, pur nel loro essere ineccepibili dal punto di vista della tecnica, finiscono con il relegare il tutto a quell’irresistibile moto di malinconia e alla produzione industriale di rimpianti. E non ci resta che attaccarci, ancora una volta, ai dischi originari. Con buona pace delle stesse produzioni nostalgiche, sempre ben remunerative, ma assai liquide e quindi per natura dispersive.