Non è un post su Beck. Il signor Hansen è soltanto un pretesto. Come il suo ultimo disco “Morning phase”, in cui sembra essere ripiombato nelle atmosfere di “Sea change” (2002), l’album che i biografi di Beck potrebbero riduttivamente definire il disco post Winona (Ryder si intende, visto che un paio di anni prima, nel 2000, la loro liason era finita). Questo invece è un post su Mister E. Sul signor Mark Oliver Everett che, in contemporanea col suddetto signor Hansen, ha pubblicato l’undicesimo album della storia degli Eels, la sua creatura. Se dopo la metà degli anni Novanta essere Loser, perdenti e sfigati, per raccontarla in maniera canzonatoria su come la cantava Beck, poteva essere (comunque) ammaliante, proprio perché il gioiellino di “Mellow Gold” si insinuava nelle orecchie e nelle vite di molti, riempiendo, ove era possibile, anche danceroom, al tempo in cui il dj di turno metteva su il pezzo in questione; Mister E faceva uscire col marchio di fabbrica Eeels il disco “Electro-shock blues” e il titolo non è un caso di iperbole e nemmeno un esempio di verosimiglianza. Lì, in quel disco, Mark Oliver racconta, come se fosse possibile senza battere ciglio, tutte le forme e le sfaccettature di un dolore che quando ti colpisce intorno e dentro è un’impresa quasi impossibile da raccontare. Lui ci riesce senza rendere quel disco di difficile digestione. Mister E, quasi come un Woody Allen della musica (ma solo) per l’intensa produzione, è arrivato al capitolo numero undici della storia degli Eels (quasi un disco all’anno, almeno nell’ultimo lustro). Il rischio che potrebbe correre uno così è di ripetersi. Ma “The cautionary tales of Mark Oliver Everett” non corre questo pericolo. Certo, se si guarda al passato più recente, è un ritorno al passato. A un passato che non vorremmo mai più schiodarci dalle orecchie e dagli occhi. Un disco introspettivo, con quell’aggettivo che crea sempre un “sintomatico mistero (cit.)” e fa aumentare il potere di fascinazione. Un disco dove ancora una volta Mark Oliver Everett (ri)passa al setaccio tutta la sua vita. Un’altra autobiografia come “L’electro-shock blues” del 1998 e come quel libro, uscito troppo tardi in Italia (edizioni Elliot), in cui mette a nudo tutta la sua vita da “perdente”: il padre, amico di Einstein, ed esperto di fisica quantistica suicida, la sorella depressa che si toglie la vita, la madre portata via da un brutto male e in cui non cede all’ottimismo che si deve a un romanzo d’appendice che lasciava comunque sempre intravedere un luce in fondo al tunnel. Il titolo in questione è “Rock, amore, morte e follia”. I racconti di Everett nel 2014 partono da tre punti cardinali – tutt’altro che banali, anche se le domande potrebbero ingenerare un’improvvisa visione de “Il quelo” di Guzzanti: dove mi trovo? dove vengo? dove sto andando? Mister E risponde in musica: le canzoni che si aprono agli archi e una voglia di “acustico” che pervade tutto il disco. Come in “Morning phase” di Beck. Ma quella è un’altra storia. Che vale comunque la pena di ascoltare. Ora, meglio concentrarsi su Mister E. Che raduna ancora una volta tutte le sue vicissitudini (perlopiù amorose in questo disco) e si presenta, come sempre ha fatto dal primo disco degli Eels, mostrando tutto se stesso: carne, ossa, sangue.