Career, career, career, career. Urlava così al microfono Stephen Malkmus. E l’ascoltatore distratto – compreso il sottoscritto – di una radio che gracchia “Cut your hair”, poteva anche cambiare il corso della suddetta canzone, pensando che l’uomo gridasse “Korea, korea, korea”. Un’assonanza o quasi. Funerea per il nostro calcio. La Corea del Sud – con gli annessi e connessi, la stazza oversize e l’occhio truffaldino di Byron Moreno – non era ancora arrivata. Sognando che un altro rock era possibile, lo-fi, a bassa fedeltà come era stato definito dai critici allora e che in fondo era un frullatore di generi (krautrock compreso) e con una miscela di schitarrate talvolta feroci e altre dolci come nel caso di Here (che perfino i Tindersticks avrebbero coverizzato); ascoltavo i Pavement, elaborando il lutto della morte di Cobain e della fine del grunge. Anno solare 1994, l’Italia di Sacchi perigliosamente superava i turni ai mondiali degli States. E io – forse per il mio inglese non propriamente affinato almeno nell’ascolto – continuavo a pensare che nel pieno di un no-sense o di uno stream of counscioness post litteram, Malkmus coi suoi Pavement gridasse davvero “Korea, Korea, Korea”. La Korea d’allora, 1994, per l’Italia poteva essere la Nigeria: muscoli, velocità e una buona dose di tecnica. Ci pensò Baggio, uscito momentaneamente dalla porta figurata, non quella calcistica ovviamente (sostituzione con annessa polemica contro la Norvegia) e rientrato necessariamente dal portone, a regalarci con un colpo di biliardo sul “rettangolo verde” (l’unica licenza retorica che mi prendo dalle quotidiane cronache calcistiche) a farci tirare un sospirone di sollievo. L’Italia andava incontro al suo destino che in finale si sarebbe chiamato prima Brasile e poi rigori. Ma quel “Korea” negli anni è rimasto comunque sempre inquietante. Come quando l’altro giorno nel pieno di un attacco di nostalgia per gli anni ’90, ho rimesso mano ai vecchi dischi, togliendo un po’ di polvere e ho ricominciato da “Cut your hair”. Nessuna esigenza tricologica (come potrebbe far pensare il titolo), forse dovevo solo dare una spuntatina alla barba, per non passare per l’ennesimo hipster. E Malkmus non aveva perso la costanza e nemmeno la forza nel gridare “career, career, career”. Che per me suonava ancora – con la partita dell’Italia contro il Costarica alle porte – un pochino inquietante. D’altronde l’Italia di Prandelli – non epica ma normale – aveva battuto l’Inghilterra. E il Costarica per come aveva liquidato l’Uruguay poteva fare anche paura, ma non aveva dentisti (come la vera Corea, quella del Nord, dell’ormai celebre Pak Doo-Ik) a centrocampo che avrebbero potuto far saltare i nostri piani di tranquillità per il mondiale. E invece il Costarica – nonostante le dovute correzioni ai numeretti che ormai tanto piacciono agli esperti, ai presunti tali e ai profani – giocava più o meno come le prime squadre di Sacchi: anche se quello di Pinto, appunto, era più un 5-4-1, che un 4-4-2. Ma la difesa costaricana rinforzata a dovere nei numeri giocava così alta che in svariate occasioni gli azzurri sono finiti in fuorigioco. Poi ci ha pensato Bryan Ruiz, 29 anni, che forse non avrà mai ascoltato i Pavement, a ergersi a eroe nazionale costaricano. D’altronde non ne avrebbe nemmeno bisogno. La carriera e la fama – cui si riferiscono Malkmus e soci in quel vecchio pezzo del 1994 – Ruiz le ha già. Gioca in Olanda, nel Psv e ha messo piede anche nella Premier League. La testata che ci ha dato e che Buffon ha visto passare sopra le sue mani invece, ci condanna alla classica sofferenza mondiale. Come complicarsi la vita in almeno due mosse. E qui vengono fuori le velleità da ct che ogni italiano ha e che non fa nulla per nascondere. Perché Buffon – interdetto sulle uscite – perché Thiago Motta? E soprattutto perché, in un’accelerazione di interrogativi, Cassano e Insigne come sostituiti? L’Italia ha steccato e di brutto. Una squadra lo-fi, a bassa fedeltà. Ma questa volta il rock e soprattutto i Pavement non c’entrano.