L’8 dicembre 1982, come mantenere una promessa canticchiando Gilberto Gil. Un po’ leggenda, un po’ verità. Più verità che leggenda, forse. Socrates sta per entrare in campo. Va a giocarsi la finale di ritorno del campionato paulista. Non si è mai visto un calciatore che fischietta prima di entrare e poi canta anche. C’è una canzone che gli ronza nella testa. Ed è quella del suo amico Gilberto Gil, quello che diventerà ministro della Cultura con Lula presidente. Ma allora il Brasile vive gli ultimi scampoli di una dittatura ventennale. Mentre Socrates va in direzione ostinata e contraria, lui e i suoi compagni del Corinthians. Due anni dopo – con una saggia mossa di marketing sovversiva per dare una spallata quasi decisiva alla dittatura – comparirà sulle loro schiene, poco al di sopra del numero di maglia: democracia corinthiana. Una scritta ben visibile. Più di uno slogan. Ora Socrates – tornando a quella notte di dicembre del 1982 – va in campo canticchiando quel pezzo di Gilberto Gil che è assai traducibile: andare con fede. Quella fede – che non può essere ridotta o derubricata solo a una questione di credo religioso – che lo spinge a fare quello che aveva promesso nel giorno più triste della sua carriera, l’uscita anticipata dal mondiale spagnolo. Quando l’Italia di Gentile che si aggrappò alla maglia di Zico, ma soprattutto di Paolo Rossi – redivivo proprio contro il Brasile più bello e immaginifico della storia (con un centrocampo composto da Falcao, Cerezo, Socrates a coprire le spalle – si fa per dire – a Zico) – schiantò i sogni verdeoro. Socrates, appena uscito dal mondiale, fece una promessa: vincerò il campionato col Corinthians. E così è stato. Ora, trentadue anni dopo, fa un certo effetto pensare che una squadra intera si faccia forza, cantando un pezzo di un artista che inevitabilmente con le sue canzoni inciderà nel cambiamento culturale e politico di un paese. Sembra cozzare inevitabilmente con le immagini odierne di calciatori che arrivano allo stadio con cuffie oversize e che si estraniano, magari autocaricandosi ascoltando un pezzo hip hop (con tutto il rispetto per l’hip hop ovviamente). In quella immagine che è ben descritta nel libro da poco uscito di Lorenzo Iervolino “Un giorno triste così felice” c’è il senso di un popolo per la musica. E’ qualcosa di epidermico che pervade i pori di tutto il corpo e che provoca scariche di adrenalina – senza che ci sia una sezione ritmica che pesta duro – continue e la voglia di andarsi a prendere quello si vuole prendere dopo tanti sacrifici, dopo ginocchiate, botte, gol subiti, schiaffi. E’ qualcosa che unisce la vittoria calcistica a una vittoria che va al di là del Paulistao. Ecco provando a immergersi in quello che almeno io non ho visto con i miei occhi ma che rientra a pieno titolo in un pezzo infinitesimale ma significativo di storia e riascoltando in maniera compulsiva quel pezzo di Gilberto Gil non si può non sognare l’impossibile, anzi non si può non osare l’impossibile. Osare perdere avrebbe cantato cinque lustri fa Giovanni Lindo Ferretti. Ma alla fine si vince. Perché è davvero questione fede. La fede nel credere che anche dall’impossibile può essere strappato quel prefisso che gela le mani, anestetizza le gambe e provoca colate di sudore freddo lungo la schiena. Poi basta una canzone per mandare in circolo energie impensabili e andarsi a prendere quello che ci spetta. Che, come nel caso della democracia corinthiana, non è solo un campionato da vincere, ma una battaglia essenziale per vedere rispettati i propri diritti.