Il fiume dei sogni. Passare un’estate in una radio comunitaria a metter su “River of dreams” e pensare che fosse perfino fin troppo ardita quella canzone per il pubblico all’ascolto. Ma in fondo è pop. Magari più elegante di quello delle classifiche, ma sempre pop è. Anzi, soft rock come in una qualsiasi playlist che si fa genere, da attingere per mettere in sottofondo durante i propri viaggi in auto o durante il proprio lavoro al computer o – che ne so – durante l’ora di jogging. Billy Joel. Era metà degli anni novanta e lui si ripresentò sulle scene con “River of dreams”, credo – non ci giurerei – che con quel pezzo lì andò anche al Festivalbar. A 14 anni però – almeno in quegli anni lì, metà Novanta appunto – il mito è incontrastato e si chiama Kurt Donald Cobain. E si guarda con un’evidente puzzetta sotto il naso l’interlocutore di turno che ascolta Billy Joel. Elitarismo musicale. Essere indie è prova da duri e puri. E non si può cedere di fronte a un Billy Joel qualsiasi, anche se il Vostro ha almeno una ventina d’anni di carriera ed è l’uomo di “Piano man”. Già “Piano man”, l’ha scritta, suonata e cantata quando ancora non ero nato. E l’orecchio distratto potrebbe inciampare sull’errore più madornale che si possa commettere in questi casi: considerarla una canzone del primo Elton John che sì, anche lui, si divertiva al piano a quei tempi. Però “Piano man” non suona affatto male con quel piano, con quelle armoniche in sottofondo. Con quell’incedere che ho scoperto più vent’anni dopo che può considerarsi a tutti gli effetti epico. Ecco, epico. L’ho scoperto con colpevole ritardo in una situazione che non avrei mai voluto vivere. Un funerale. Il funerale di un mio collega andatosene troppo presto. Grande cultore di jazz. Ma che ascoltava appunto questa “Piano man”che non significa, affatto, un downgrade. Assolutamente. Solo che l’ho scoperto in ritardo. Perché nel momento delle lacrime, dei singhiozzi, nel momento dell’ultimo saluto, ecco che in chiesa parte questo pezzo di Billy Joel. Stento a riconoscerlo. Però poi non mi abbandona più. Lo fischietto. E infine in maniera compulsiva lo faccio girare su YouTube. C’è il video e capisco. Capisco di questo pianista che suona mentre la gente in un locale fumoso (newyorchese forse) prova a divertirsi, passano di mano in mano bicchieri e lui il pianista di piano-bar suona. Senza perdere la dignità. Suonala ancora Sam. No, perché il vero protagonista è lui che racconta quel mondo che gira attorno a sé in maniera vorticosa dove sofferenza e divertimento si rincorrono, si mescolano e dove lui tira dritto davanti a manager, a improvvisati scrittori, alza di qualche tono la sua voce. E’ la sua canzone. Epico sì. Epico per un’uscita di scena. Epico perché solo l’epica – che è più di verosimiglianza – sa raccontarti la vita, la bellezza della vita, anche nel dolore. E ringrazi. Di aver avuto la fortuna di aver conosciuto chi – anche nel distacco – ti ha consigliato qualcosa che entra di diritto nelle canzoni (sottovalutate certo, almeno fino a ieri) che ti porterai dietro per sempre. Cui ti aggrapperai – come adesso – per cercare non solo conforto ma sollievo, carica, energie da spendere. Vita vera, insomma. Grazie Paolo.