La scoperta che c’era anche una scena islandese – che non fosse solo Bjork dipendente o Bjork riferita – avvenne nell’inverno del 1999. Un anno e mezzo prima avevo comprato “Homogenic” che con “Yoga” e “Bachelorette” si era infilato in testa. Un po’ anche perché Mtv trasmetteva i pezzi in alta rotazione. Poi, dopo oltre un anno di ascolto forsennato, una cena e un rito singolare: masterizzare (non sarei perseguibile ora, siamo già in abbondante prescrizione) i cd che più ci avevano colpito. Ed ecco il feto. Sì, perché pronunciare “Agaetis Byriun” era impresa pressoché impossibile. E quella copertina – al di là dell’inquietudine di fondo – colpiva. Andava dritta alla pancia. Il tempo di infilare il cd nel lettore e si apriva un mondo. Perfino più sconfinato di quello che Bjork in qualche maniera aveva indicato con “Yoga”. E mentre i Sigur Ros raccontavano la loro terra – glaciale per definizione fin troppo abusata e (perfino) dozzinale – si stendevano (se solo fosse possibile nella realtà) in un caldo abbraccio (musicale). Avvolgente. Quasi vent’anni dopo – sedici per la precisione – mentre hanno annunciato le loro nuove canzoni nel tour estivo del 2016, mi è capitato di riprendere in mano il successore di “Agaetis Byriun”. All’epoca quando uscì si cercavano conferme anche perché i Sigur Ros erano stati chiamati a fare da spalla ai God Speed You Black Emperor! e Radiohead. E loro decisero semplicemente di non dare un titolo a quell’album e nemmeno alle otto canzoni contenute. Un modo che in età tardoadolescenziale non puoi non apprezzare perché significa più o meno “fottersi del sistema”, del mainstream (che comunque, seppure non discograficamente parlando, li stava già inglobando), regalando un’operazione di “no marketing” (per le regole e le convenzioni che siamo stati abituati a conoscere prima e utilizzare poi), ma rafforzando ancora di più il significato di un album che non conteneva testi (visto che utilizzavano una lingua artificiale, inventata da loro, e definita lo “speranzese”). E poi quel sovraumano silenzio che divide le due parti dell’album. Ecco, stamane ho ripreso in mano quel disco e l’ho inserito come un tempo facevo nel lettore cd dell’auto. “Untitled 1”, nel frattempo era diventata oggetto di innumerevoli colonne sonore (anche di film italiani), ma ascoltandola dava la stessa identica sensazione di un tempo, mentre fuori le temperature erano scese abbondantemente, certificando l’arrivo dell’inverno. La sensazione (immutata) di un abbraccio. Un caldo abbraccio.