Non sapevo che il punto d’arrivo sarebbe stato poi quello di partenza di questo post. Perché in tempo di bilanci del 2015 che sta per andare in archivio, si discute (giustamente) di dischi. E nel 2015 c’è un disco che ha segnato l’anno e il vissuto del sottoscritto: “Carrie e Lowell”. Fin troppo facile dirlo ora, quando nella maggior parte delle classifiche delle riviste di settore, questo disco è giustamente ai primi posti. Ma non è una gara né sulle competenze né sulle dimensioni… della propria conoscenza musicale. Perché è un bel disco questo “Carrie e Lowell”, non solo perché è suonato bene da Sufjan Stevens che ritrova forse una vena smarrita negli ultimi episodi. E questa vena artistica la ritrova proprio nel momento più difficile, quello della perdita della propria madre. La Carrie del titolo è sua madre che se ne è andata per sempre. Un disco che suona come una dichiarazione d’amore tutt’altro che retorica. Ecco il punto, almeno per me, quando un disco è un buon disco, quando riesce a smuoverti qualcosa dentro che solitamente non si smuove. Tutto questo capita poi, allargando solo per un istante il discorso, in un anno dove le opere migliori, almeno per il sottoscritto, in campo cinematografico e letterario, hanno fatto i conti con la perdita della madre. Qui, però, ci spostiamo in Italia. Ecco c’è un filo rosso bello teso che lega il film di Nanni Moretti “Mia madre”, il libro di Marco Peano “L’invenzione di una madre” e questo disco di Sufjan Stevens. Tornando all’attacco di questo post perché il punto d’arrivo coincide con quello che sarebbe dovuto essere e poi, nella realtà lo è, il punto di partenza? Perché ho provato, così tanto per cazzeggiare un po’, a mettermi davanti a YouTube e a vedere dove mi avrebbe portato questo viaggio musicale, come si fa quando si divaga con le indicazioni del navigatore dell’auto scegliendo la seconda opzione di quelle consigliate per andare a vedere un posto che non avremmo mai visto se ci fossimo limitati a percorrere l’autostrada. Il viaggio inizia da Benjamin Clementine che, colpevole ritardo, fino a un mese fa non conoscevo. Poi il suo viene considerato tra i dischi del 2015 e “Cornerstone” è qualcosa che resta impresso per la voce di Benjamin. Sì, potrebbe essere anche un pezzo natalizio. Da Clementine il consiglio seguito è quello che rimanda a Bon Iver. C’è sempre bisogno di una canzone di Justin Vernon. Soprattutto d’inverno. Soprattutto se tutto lascia pensare che lui si appaleserà di nuovo nel 2016. Il pezzo scelto è “I can’t make you love you”. La tappa successiva porta all’Islanda. Sigur Ros, la canzone dal grande freddo che scalda il cuore. “Olsen olsen”, il video tra l’altro mostra uno dei concerti che la band tenne in Islanda. Tra fuochi che si accendono contemporaneamente agli amplificatori e archi che fanno da contrappunto alla voce di Jonsi. E poi il successivo consiglio seguito si chiama Mogwai. “Take me somewhere nice”, portami in un posto carino. Il titolo dell’album da cui è tratto è una dichiarazione d’intenti: “Rock action”. Nel pezzo s’insinua anche una voce. E’ quella di David Pajo, dagli Slint: non è stato un anno facile per lui, questo, aveva annunciato sul suo blog di volerla farla finita, è riuscito a sopravvivere al tentativo di suicidio. Ecco perché la playlist che prende forma nelle più diverse forme – gioco di parole necessario – trasuda vita vissuta, stirata fino a quasi al punto di non ritorno, ripresa per i capelli, vita vera. La ninna nanna non può mancare. “Lullaby” dei Low con Mimi Parker a cantarla e sembra quasi passare il testimone, quasi dieci minuti dopo, a Beth Gibbons dei Portishead che in quel disco live “Roseland Nyc” indica la strada, anzi le strade: “Roads”. E la strada (ri)porta a Sufjan Stevens a “Should Have Known Better”, singolo e simbolo, canzone struggente di “Carrie & Lowell”. Punto d’arrivo e punto di partenza di una playlist prenatalizia