C’è un anello di congiunzione generazionale. E “The man who sold the world” per noi trentenni (che ormai veleggiamo verso i quaranta) in qualche maniera lo è. La sentimmo cantare da Kurt Cobain più o meno quando lui se ne era già andato e noi avevamo appena quattordici anni: 1994, l’unplugged di Mtv dei Nirvana, con Mtv che ancora non entrava in tutte le case degli italiani. Ammaliati da quel pezzo che non era di Cobain ma che in qualche maniera segnava – per quanto fosse possibile farlo allora, per i Nirvana e per il grunge – dei debiti di riconoscenza: David Bowie appunto, la canzone era la sua, e scorrendo qualche minuto più avanti quell’unplugged, Leonard Cohen, citato da Cobain in Pennyroyal Tea. Sì, siccome nessuno nasce imparato, una cultura musicale si costruisce anche così. Prendendo un punto, nella fattispecie i Nirvana, e andando poi a ritroso. E così che scoprimmo quanto David Bowie, nel 1994, fosse eccezionalmente moderno con canzoni che erano datate almeno un ventennio prima. E così partì l’ascolto matto e compulsivo ma alquanto soddisfacente per orecchie e sentimenti del Duca Bianco. Perché è, inutile girarci attorno, se non ci fosse stato lui (oggi che se ne è andato per sempre), non ci sarebbero stati i Flaming Lips così visionari, ma arrivati comunque dopo David, e nemmeno i tanto osannati Arcade Fire, in cui lui stesso (Bowie) riconobbe una ventata d’energia (non propriamente) nuova ma comunque quanto meno rinfrescante, anche se uscivano dal comparto fin troppo modaiolo di Pitchfork. Sembra uno scherzo del destino ma forse non lo è che se ne sia andato a pochi giorni dall’uscita del suo ultimo disco e da quel “Lazarus” che riletta ora, sembra così irriverente da chiedere a se stesso l'”alzati e cammina” quando la fine ormai sembrava vicina e di prendersi gioco di quella morte che ormai sembrava inevitabile.