È morto Glenn Frey. La metà degli Eagles che se ne va. È senza pace questo gennaio che di colpo sembra diventare il mese dei necrologi musicali. Purtroppo, per ragioni strettamente anagrafiche, dovremo abituarci al peggio: quella generazione lì viaggia ormai verso i settanta, quando non li ha passati. E l’immortalita, per quanto ci si ostini a sperare che possa almeno avvolgere i nostri cantanti o le nostre band di riferimento, non esiste. L’enciclopedia del rock perde così un altro pezzo, tutt’altro che secondario. Perché gli Eagles – che Frey contribuì a creare – appartengono a quello che le migliaia di radio web americane nell’ansia di etichettare qualsiasi cosa, definirebbero Classic Rock. Che hanno di classico gli Eagles? Forse il fatto che come al liceo per la formazione di ognuno di noi, prima di arrivare all’oggi, bisogna passare per i classici, appunto, che in questo caso si collocano negli anni Settanta? O forse ancora meglio c’è qualcosa di epico nell’andatura – e non solo nella durata – del loro pezzo più conosciuto, “Hotel California”, che quello sì permetterà a loro e a Frey che ne era il chitarrista l’imperitura memoria. Ecco, “Hotel California” è uno di quei pezzi che se non rischi (in senso buono) di trovare a qualche ora notturna in qualche programma radiofonico, devi andartelo a cercare tra i tuoi dischi o i tuoi cd. Ma il fascino rimane comunque immutato. La prima volta che mi imbattei in “Hotel California”, avevo 11 anni ed accadde in Germania. 1990, gemellaggio delle medie, la prima volta da solo, lontano dalla famiglia, all’estero. Il muro di Berlino era appena caduto e si stava per formalizzare l’unificazione tedesca. In un locale di Lorrach, la città gemellata, infilarono una dietro l’altra due canzoni che in qualche maniera si fossilizzarono nei miei ricordi. La prima era “Wind of change”, sì il vento del cambiamento degli Scorpions (anche qui Classic rock) che a torto o a ragione può comunque definirsi la colonna sonora della caduta del Muro e subito dopo proprio “Hotel California”. Che per settimane ricercai tra i cugini più grandi per mettere in una cassetta finché non raggiunsi il mio scopo: Hotel California nel mio walkman. Certo, sembrano ere musicali, soprattutto di fruizione, fa. Ma se c’è qualcosa di quel concetto d’immortalità, assente per ovvie ragioni quando una vita finisce, lo si può ritrovare proprio qui. Nella capacità di rendere indimenticabile un pezzo e di far sì che quel pezzo, a distanza di anni, sia in grado ancora di generare ricordi e di darci anche delle sicurezze. Certo, negli anni successivi, ho ascoltato sempre di meno gli Eagles e sempre di meno “Hotel California”, ma poi il nastro (che nel frattempo era diventato cd) si è riavvolto di nuovo. “Il grande Lebowski” e la sua colonna sonora, in cui i Gipsy Kings (quanto di più lontano ci fosse allora dai miei ascolti) interpretarono “Hotel California” che nella sua versione gitana era quanto di più lontano ci fosse dall’originale, ma senza perdere poi quell’andatura epica che per me era la firma inconfondibile degli Eagles. Ecco, un altro segno di qualcosa che si avvicina a quel concetto di immortalità che è poi un impasto di ricordi, da tramandare o solamente da far rivivere, emozioni e pensieri da far fluire in libertà dopo aver ascoltato una voce (che magari non c’è più) o un riff di chitarra suonato da qualcuno che se ne è andato da tempo. Qualcosa di epico, appunto. Che continua sempre a valer la pena di raccontare (e ascoltare), anche di fronte a un lutto.