NEI GIORNI scorsi ho avuto un civile scambio di lettere con il presidente delle Poste Italiane, Luisa Todini: mi lamentavo della burocrazia, il mostro che ha sempre divorato la Pubblica Amministrazione, che si trova ancora in qualche ufficio postale (a Bologna, ad esempio, dove mi sono imbattuto in un cerbero in gonnella), lei replicava che proprio l’accoglienza era diventata la parola d’ordine negli oltre tredicimila sportelli sparsi in Italia. Ci auguriamo tutti che sia così, ma un dubbio continua a ronzarmi in testa: perché mai le Poste Italiane, invece di concentrare tutte le risorse disponibili per compiere quella specie di rivoluzione copernicana verso l’efficienza, devono investire 40 miliardi, che potrebbero anche diventare 60, nella nuova società con gli arabi di Etihad? Tantissimi soldi che potrebbero essere utilizzati nel “core business” e che rischiano pure di essere gettati al vento, perché gli sceicchi hanno posto tanti e tali paletti che, alla fine, saranno soltanto loro a gestire la flotta tricolore, pur non avendo la maggioranza delle azioni.

QUANDO è stata costruita la macchinosa operazione di salvataggio della compagnia di bandiera, i vertici delle Poste hanno messo sul tavolo un quinto del capitale e, come contropartita, chiedevano un ruolo nel controllo di Alitalia, pensando di possedere tutte le carte per avere, in qualche modo, voce in capitolo. Oggi, la Todini e l’amministratore delegato, Francesco Caio, si sono, invece, resi conto della realtà, che il “Giorno” spiega da settimane, ricevendo, immancabilmente, la replica del ministro Maurizio Lupi che cerca di smentirci. Abbiamo sempre sostenuto – e i fatti ci stanno dando, purtroppo, ragione – che la cessione, come era stata congegnata, diventava, quasi, una specie di scippo da parte di Etihad nei confronti degli altri azionisti. Mi rendo conto che non ci sono valide alternative e anche ieri gli arabi hanno ripetuto: o prendete questa minestra o saltate dalla finestra. Con la conseguenza che tutti i dipendenti della compagnia rischiano il licenziamento.

MA non si può neppure accettare un simile aut-aut che sembra proprio un ricatto: per quale motivo gli azionisti italiani debbono investire soldi e risorse, finendo, poi, per abdicare completamente al loro ruolo? Ho il dubbio che le ultime impuntature nella stanza dei bottoni delle Poste siano motivate da questa tardiva consapevolezza: per quale dannata ragione dobbiamo sacrificarci per capitolare del tutto a favore di Etihad? Ci voleva quella clausola di salvaguardia che ho sollecitato più volte invano: la cosiddetta “poison pill”, o “pillola avvelenata”, che avrebbe garantito gli azionisti italiani. Gli arabi hanno rifiutato di concedere le giuste garanzie che chiedevano tutti gli altri e oggi ci ritroviamo in un vicolo cieco. Spesso e volentieri, i sindacati sono fin troppo corporativi, ma, nel nostro caso, soprattutto la Uil, hanno ragioni da vendere. Il problema è che, a questo punto, non è più possibile tornare indietro: è in gioco la sopravvivenza di Alitalia che ha, ormai, i giorni contati. Gli sceicchi hanno il coltello per il manico e noi dobbiamo sorbirci l’amara minestra. O, peggio ancora, ingoiare quella “pillola avvelenata” che non siamo riusciti a fare digerire agli arabi. Welcome Etihad: l’accoglienza è la parola d’ordine delle Poste e di tutti noi.
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