IL 1° LUGLIO 1899, un afoso giorno d’estate (come l’altro ieri, 1° agosto 2014), nasce la “Società italiana per la costruzione e il commercio di automobili – Torino”, poi cambiata in “Fabbrica Italiana Automobili Torino”, che ha sede sotto la Mole Antonelliana. In un Paese in cui si moriva ancora di pellagra, a credere nel cavallo d’acciaio, la più importante rivoluzione del secolo breve, sarà un ufficiale in congedo piemontese, Giovanni Agnelli, che mette assieme un gruppetto di nobili, ricchi borghesi e qualche “travet” per lanciarsi nella nuova avventura. Esattamente 115 anni e un mese dopo la Fiat ha tenuto l’ultima assemblea degli azionisti a Torino: d’ora in poi si parlerà solo inglese perché i “summit” di quella che, anche di recente, viene chiamata la nuova dinastia sabauda, si terranno a Londra. È giusto che sia così: la Fiat, soprattutto dopo il matrimonio con l’americana Chrysler, è sempre più internazionale, una multinazionale delle quattro ruote che, per affrontare le sfide globali, Marchionne o non Marchionne, deve restare al centro del mondo.

SCELTA OBBLIGATA, quindi, ma per coloro che hanno sempre creduto nell’assioma Fiat=Torino, è legittimo un pizzico di nostalgia. E anche un po’ di preoccupazione per il fatto che le grandissime firme del “made in Italy” sono costrette, una dopo l’altra, ad emigrare (o, peggio ancora, ad abdicare) perché, nel Belpaese, non ci sono più le condizioni giuste per proseguire al meglio. Cosa hanno fatto gli ultimi governi per sostenere l’impresa italiana? Perché è andato a vuoto il grido di dolore più volte lanciato dal presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi? Dalle troppe imposte che gravano sulle aziende e sul costo del lavoro, alla burocrazia dilagante che frena ogni nuova iniziativa, abbiamo davvero fatto di tutto per disincentivare gli investimenti dei capitani d’industria e costringerli a emigrare all’estero. Chi parla più dei “sciùr Brambilla” che tentavano l’avventura non solo in Brianza? Dove sono finiti i pionieri di una volta – come Giovanni Agnelli, appunto, o Giovanni Borghi -, che hanno costruito la nuova Italia?

CI MANCA quel clima “fin de siècle” che si respirava al momento del lancio della Fiat, per decenni, la prima industria italiana. In quel primo scorcio del Novecento, gli intellettuali, come Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini, imprimono un profondo rinnovamento alla cultura. Nascono il liberty e il cubismo, mentre il futurismo decolla con un vulcanico Marinetti, sempre pronto a sostenere che un’automobile in corsa è più bella della Vittoria di Samotracia. Cosa sono rimasti di quello spirito d’avventura, di quella capacità imprenditoriale? Oggi viviamo, purtroppo, alla giornata, sperando in tempi migliori. E, poi, diciamo la verità: ci fa un po’ effetto la Fiat fumo di Londra, ma anche sempre più a stelle e strisce per via della Chrysler. Mi viene in mente il sorriso dell’Avvocato, Gianni Agnelli, nipote del fondatore, quando qualcuno diceva di lui “un americano imprestato a Torino, piuttosto che un piemontese in prestito a Manhattan”. Altri tempi. Ma, chissà, forse sarebbe stato felice anche lui di questa Fiat cittadina del mondo.
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