MI SCRIVE il rettore dell’Università di Pavia, Fabio Rugge, sottolineando l’importanza dei nuovi corsi di medicina in lingua inglese offerti dall’Humanitas. Una novità che consolida il primato della Lombardia dove cinque università, su un totale di nove in tutta Italia, propongono corsi analoghi. A fare da apripista, nel 2009, fu proprio l’ateneo in riva al Ticino. Quest’anno, a contendersi gli 80 posti del corso pavese, dedicato allo scienziato britannico William Harvey, si sono iscritti 1.473 candidati e in trecento, giovani e forti, sono arrivati direttamente dall’estero perché attratti dal nome di una delle più antiche università d’Europa (l’ateneo di Pavia risale al 1361). Tutto ciò è molto positivo e bene ha fatto il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, ad annunciare che, dal primo settembre 2015, sarà introdotto lo studio dell’inglese nelle elementari (e, anche in questo caso, ci sono scuole antesignane, come un istituto parificato di Carate Brianza).

DEBBO CONFESSARE che ho rivalutato molto la Giannini, al di là del petto in fuori. Anche perché ha quasi bocciato Matteo Renzi, ammettendo che il suo inglese è da sei meno. Per la verità, io avrei dato al premier un bel quattro dopo averlo sentito parlare nella lingua d’Albione in un filmato che è andato a ruba quest’estate, ma, comunque, il sei meno della Giannini è, piuttosto, onesto. 
Tutto bene, dunque, tranne un piccolo particolare: è giusto, giustissimo, imparare l’inglese. Non sarebbe, però, male, prima di cimentarsi con lo “speak English”, di avere, un po’ più di “feeling” con l’italiano. Che, ad ascoltare certi nostri politici, sembra quasi una lingua straniera. E non mi riferisco soltanto a quel senatore Razzi tanto caro a Crozza.

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