QUELLA CHE si conclude oggi è stata, non solo meteorologicamente, una settimana calda che ha fatto rivivere a molti le apprensioni e le paure dell’autunno 2011. Tanti i segnali d’allarme: le Borse che salgono sulle montagne russe con forti cali e altrettanto repentini recuperi, lo spread instabile, la Grecia che minaccia di abbandonare il club della moneta unica, dopo avere ottenuto copiosissimi aiuti da Bruxelles, i leader di Lega e Cinque Stelle che, pur detestandosi tra loro, fanno a gara per apparire uno più euroscettico dell’altro, l’Europa sempre più muta e distante dal comune sentire. Dopo avere colpevolmente ignorato i numerosi scricchiolii manifestati dalla divisa comune – chi cercava di far aprire gli occhi ai burocrati rinchiusi nei bunker dell’Europarlamento era considerato alla stregua di un disfattista – ecco che vengono a galla tutte le distorsioni della costruzione valutaria sul fronte economico e finanziario. Così, in questo momento, la più penalizzata dalla recessione mondiale appare proprio l’area-euro, Germania compresa, mentre la Bce dimostra, ogni giorno di più, di non avere gli estintori adatti per spegnere gli incendi che si propagano da un punto all’altro del continente.

ALLA LUCE di questa situazione, purtroppo, drammatica, risultano lucide e appropriate alcune considerazioni che l’economista Paolo Savona va facendo da tempo. A suo parere e adesso anche a giudizio di altri – il male dell’Europa, al di là delle debolezze intrinseche, è stato determinato dallo squilibrio tra Paesi ricchi e Paesi deboli e, in particolare, dalla supremazia della Germania. In effetti, l’allievo di Carli vede sinistre convergenze tra la posizione attuale tedesca e quella adottata, nel 1936, dall’esecutivo nazista con il piano del ministro dell’Economia, Funk. È evidente che Savona parla per paradossi, perché la Merkel sarà pure una cancelliera di ferro ma non ha, ovviamente, nulla da spartire con le croci uncinate, ma il suo raffronto porta, comunque, qualche motivo di riflessione. IL PIANO FUNK di quasi ottant’anni fa prevedeva che la Germania divenisse il Paese d’ordine d’Europa, che le monete nazionali del continente «confluissero nell’area del marco», che lo sviluppo industriale fosse di esclusiva pertinenza di Berlino, con l’eccezione della Francia, e che tutti gli altri Stati dovessero dedicarsi solo all’agricoltura e al turismo. Oggi non si salva neppure Parigi e l’interrogativo posto dall’economista sardo è legittimo: «Non è quello che sta succedendo con l’euro?». Il problema è che la leadership tedesca, per quanto legittimata dalla forza propulsiva di quel paese, soprattutto se praticata a livello sovranazionale comporta anche dei doveri nei confronti dei partner. Ciò non è successo, anche per la superficialità e l’insipienza dei padri dell’euro, e tutti i nodi stanno, così, venendo al pettine. La speranza è che i soci del club monetario si mettano, finalmente, attorno ad un tavolo per trovare una soluzione comune, anche perché qualsiasi decisione unilaterale, a cominciare dal forfait della Grecia, sarebbe davvero disastrosa per tutti. Dopo aver visto, però, le vuote facce di Van Rompuy e di Barroso al vertice Asem di Milano dei giorni scorsi, diventa difficile credere che l’Europa possa compiere il salto di qualità necessario a invertire la disastrosa rotta tracciata.

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