Domenica mattina incontro Romano Prodi al mercatino di Piazza Santo Stefano, a Bologna. Lo trovo più cordiale del solito. Gli chiedo se ci sono novità sulla corsa al Quirinale e mi risponde con un mezzo sorriso. Passano 24 ore e leggo sui giornali del “rendez-vous”, a Palazzo Chigi, del Professore con Renzi. È l’occasione per tornare alla carica sulla corsa al Colle, ma lui mi fa sapere: fortunatamente no. Quasi nelle stesse ore, il maestro Riccardo Muti, che l’economista Marco Vitale aveva lanciato dalle colonne del “Giorno” come possibile candidato, ottenendo, peraltro, diversi consensi, fa sapere che è commosso per la campagna del giornale a suo favore, ma non è, comunque, disponibile alla discesa in campo.

Insomma, nello stesso giorno, almeno a parole, due “no, grazie” che mi fanno molto riflettere. In altri tempi, riuscire ad entrare nel novero dei personaggi in corsa per la presidenza della Repubblica, sarebbe stato il più grande degli onori. Cosa c’era di più nobile e alto che rappresentare il proprio Paese ai massimi livelli? Ma, oggi, tra antipolitica dilagante e timori sugli scenari futuri, il primo pensiero dei papabili diventa l’interrogativo: ma chi me lo fa fare? Domanda assolutamente legittima che, però, dà l’esatta misura della profonda crisi delle Istituzioni. Oggi, il potere è un po’ come la corrente elettrica: chi tocca i fili del Palazzo muore.
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