Premessa: il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, mi è davvero simpatico perché è un romagnolo senza tanti peli sulla lingua che ha fatto una dura gavetta, entrando nel mondo produttivo quando ancora aveva i calzoni corti. Ma il grande ottimismo che, solo qualche settimana fa, aveva espresso quando l’avevo intervistato a una Festa dell’Unità vicino a Cervia, è stato clamorosamente smentito dai dati sull’occupazione giovanile forniti dall’Istat che, spesso e volentieri, si trova in conflitto con le cifre del ministero. Secondo l’Istituto di statistica, infatti, i senza lavoro tra le nuove leve, che garantiscono il futuro di uno Stato capace di reggersi con le proprie gambe, hanno raggiunto una cifra-record mai uguagliata dal 1977, cioè dai tempi post-congiuntura. Siamo ai livelli di disoccupazione più alti in Europa: ci battono solo la Grecia, che è tutto dire, e la Spagna. Da mesi, ormai, membri del Governo, ma anche diversi, autorevoli, esponenti del mondo della produzione, ci fanno sapere che la luce della ripresa comincia finalmente a vedersi. Ma questa inversione di tendenza non si registra nei dati dell’Istat che qualcuno, con una certa brutalità, accusa di «gufismo».

Lo scenario che emerge da questi numeri è assolutamente desolante, soprattutto al Sud: il tasso di disoccupazione dei giovani in cerca di lavoro tra i 15 e 24 anni d’età ha toccato, lo scorso giugno, quasi il fifty-fifty rispetto agli occupati: un incredibile 44,2 per cento, con un aumento dell’1,9 per cento sul mese precedente. Se non ci limitiamo solo all’emergenza-giovani, il problema non cambia di molto perché, anche in generale, il numero dei senza lavoro è tornato a crescere: dopo il calo di aprile (-0,2%) e la stazionarietà di maggio, ecco un nuovo picco verso l’alto a quota 12,7 per cento, con un aumento di 85mila unità. Sono dati preoccupanti perché tanti avevano scommesso che la ripresa era proprio dietro l’angolo, anzi che la locomotiva del “made in Italy” aveva già imboccato la strada giusta. Così non è stato. Come spiegare tale contraddizione? L’ho chiesto al presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, che, in modo semplice, mi ha fatto capire l’arcano: da una parte, la svolta economica non c’è ancora stata, dall’altra continua ad esserci l’esigenza di dare una carica e un po’ di entusiasmo in più al mondo delle imprese perché, con gli attuali livelli di demoralizzazione tra gli addetti ai lavori, non si va molto lontano. Insomma, tanti trombettieri hanno finito per gonfiare qualche piccolo, spesso apparente, segnale di risveglio, tutto ancora da consolidare. È vero, il Governo ha varato di recente il “Jobs Act”, ma, al di là dei primi segnali confortanti, il provvedimento rischia di essere solo un palliativo se non si interverrà in modo più significativo sulla riduzione del carico fiscale che continua a gravare sull’impresa. Sarebbe una jattura il fatto che i tassi di disoccupazione continuassero a salire proprio quando le nostre esportazioni sono avvantaggiate dal cambio più favorevole dell’euro nei confronti del dollaro e, per quanto riguarda soprattutto la Lombardia, del franco svizzero. Certe volte, insomma, l’eccessivo ottimismo non consente l’esame obiettivo della realtà e fa prendere dei pericolosi abbagli.
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