«I SOLDATI ridevano per come temevamo i fucili. Li tenevamo così, come si tiene una bambola».
Voci di donne dalla guerra che è una roba per uomini, fatta da uomini e raccontata da uomini. Donne russe, bielorusse, ucraine, sovietiche insomma. Furono almeno un milione quelle che combatterono nell’esercito, mezzo milione in quello americano e altrettante in quello tedesco. Tutto può diventare letteratura, dice il Nobel Svetlana Aleksievic, anche passare sette anni, come ha fatto lei, ad ascoltare donne che le hanno raccontato una guerra diversa da quella tramandata dagli uomini. Meno retorica, più vera.

TANT’È che comincia “La guerra
non ha un volto di donna”, l’ultimo suo libro uscito in Italia per Bompiani, con quelle voci che in un primo tempo aveva scartato perché le aveva valutate azzardate per la censura che era sempre attenta custode di un’idea positiva della vittoria con la V maiuscola. Ascoltiamole. «Tutto quello che sapevamo della guerra – dice l’Aleksievic – ci era stato trasmesso da voci maschili. Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione maschile della guerra». Non è un colpevole silenzio femminile ma un tratto naturale perché la donna non è nata per uccidere ma per dare la vita.
L’identità. «In quei tre anni – dice una di loro – non sono più stata una donna. Non avevo il ciclo e quasi nessun desiderio. Quando il mio futuro marito si dichiarò eravamo a Berlino davanti al Reichstag. Mi ha detto: “La guerra è finita. Siamo rimasti vivi. Sposami”. Avrei voluto colpirlo. Volevo piangere».

L’INFERMIERA. Non dimenticherà mai quel ferito sofferente ma che aveva un sorriso luminoso. «Mi ha detto: “Sbottonati il camice, mostrami i seni, non vedo mia moglie da così tanto tempo”. Mi sono girata e sono scappata. Dopo un’ora sono tornata, era morto.
La vendetta. «Prendevamo i prigionieri e li portavamo al reparto. Non li fucilavamo, una morte troppo lieve per loro, ma li infilzavamo come maiali con le bacchette per pulire i fucili, li facevamo a fette. E non vedevo l’ora che per i tormenti cominciassero a scoppiargli gli occhi. A saltargli via le pupille. Cosa vuole saperne lei? Quelli avevano bruciato vive mia madre e le mie sorelline su un rogo nel centro del villaggio».

LA CARRISTA. «A Stalingrado c’erano così tanti cadaveri che i cavalli non ne avevano più paura. Io conducevo un autocarro, trasportavo casse di proiettili e sentivo i loro crani schiantarsi sotto le ruote. Il crepitio delle ossa».
L’eroina. Era stata fino a Berlino e aveva avuto molte decorazioni. Tornata a casa vi restò tre giorni, al quarto la mamma gli preparò un fagottino e le disse di andare via. «Hai due sorelle minori, chi le vorrà sposare? Tutti sanno che sei stata per quattro anni al fronte in mezzo agli uomini».
La madre. «Ho partorito in una zona paludosa, su una lettiera di fieno. Asciugavo i pannolini lavati riponendoli in seno, poi glieli rimettevo intiepiditi dal calore del mio corpo. Attorno era tutto un incendio, bruciavano i villaggi».
La romantica. «Un giorno durante il corso… chissà perché non riesco a raccontare questa storia senza emozionarmi. Era primavera. Ho colto delle violette. Le ho appese alla baionetta e ho ripreso a marciare. Mi sono costate tre corvé di punizione».

L’IMPREVIDENTE. «Cosa mi sono portata quando sono andata al fronte? Non ci crederà ma pensavo di tornare presto. Avremmo sconfitto il nemico. Ho messo in valigia la mia gonna preferita, due paia di calze e uno di scarpe».
Un’altra infermiera. «La cosa più insopportabile erano le amputazioni. Prendevo la gamba con discrezione perché il ferito non se ne accorgesse e la portavo via in braccio come un bambino… un neonato».
Un’altra. «Mi chiedi qual è stata per me la cosa più terribile della guerra? E’ stata dover portare delle mutande da uomo».
La testimone. «Durante un assalto all’arma bianca stavo un po’ arretrata e gli uomini si infilzavano. Non sono capace di descrivere cosa accadeva. Le donne non hanno idea di come possono diventare gli uomini, a casa moglie e figli conoscono tutto un altro marito e padre. Se ci pensi ti prende l’angoscia».
Tante ragazze che hanno fatto la guerra si sono ritrovate sole, non si sono sposate, sono finite in appartamenti in coabitazione. Dimenticate.