FINO al 1° dicembre 2012 Edward Snowden non esisteva, era solo un anonimo tecnico informatico che aveva lavorato per la Cia e per un’azienda consulente della Nsa, la National Security Agency, implicata nello spionaggio della Merkel, dei suoi ministri, di Hollande, di Sarkozy, Chirac e di milioni di altre persone. Con i suoi predecessori non ha nulla in comune se non il nome: anche lui è un gola profonda. Ma non è uno che stava nella stanza dei bottoni come nel Watergate, lo scandalo che costrinse il presidente Nixon a dimettersi. Il gola profonda che informò i due giornalisti del “Washington Post”, Carl Bernstein e Bob Woodward, si è saputo, ma solo trent’anni dopo, che era stato il numero due dell’Fbi dell’epoca, Mark Felt.

A DIFFERENZA che in passato in questa storia che ha a che fare con lo spionaggio di massa smascherato da Snowden non ci sono incontri nei garage o nei parchi, non ci sono baveri rialzati, non ci sono uomini con il giornale sotto il braccio come segno per farsi riconoscere. Non ci sono tempie bianche. Quando il 9 giugno 2013 il “Guardian” pubblicò i tabulati forniti da Edward, in prima pagina c’era la foto della spia che li aveva forniti e quella spia era un ragazzino che non aveva ancora trent’anni e aveva una barbetta così vaga da essere una patetica peluria. Ma questa storia e quella del Watergate hanno comunque in comune una cosa. Su Snowden sta per uscire un film di Oliver Stone, il vincitore dell’Oscar a “Platoon”, “Nato il quattro luglio” e “Fuga di mezzanotte” e la sua ambizione è quella di ripetere il successo di “Tutti gli uomini del presidente” il film che celebrò la vittoria della stampa sugli abusi del potere di Nixon. Ma questa dei giorni nostri è tutt’un’altra storia, molto molto più grave.

IL RAGAZZINO SPIA contattò il collaboratore del “Guardian”, Glenn Greenwald, che all’epoca aveva 45 anni, newyorchese ma abitante in Brasile a Rio de Janeiro. Era il 1° dicembre 2012 e il messaggio esordiva così: «Per me è molto importante che le persone possano comunicare in piena sicurezza». Firmato Cincinnatus, con riferimento a Lucio Quinzio Cincinnato, il contadino dell’antica Roma che, nominato dittatore, aveva sconfitto gli Equi ed era tornato al lavoro dei campi senza nulla chiedere o pretendere. La scelta del contatto non fu casuale, infatti Greenwald aveva un blog dedicato alla lotta allo spionaggio informatico. E Cincinnatus promise di fornire informazioni interessanti sull’argomento, se l’interlocutore si fosse dotato del programma Pgp, a protezione della pirateria informatica e degli strumenti più sofisticati di intercettazione. In sostanza con quel programma ogni messaggio è blindato da un codice di migliaia di cifre e caratteri minuscoli o maiuscoli, che resistono anche ai software della Nsa, che pure sono in grado di forzare tanti accessi avendo la capacità di generare fino ad un miliardo di combinazioni al secondo. Nei giorni successivi Snowden verificò se il giornalista si fosse dotato dello scudo che aveva richiesto ma constatando una certa indolenza da parte di Glenn nel procurarselo, decise di sparire.

DOPO alcuni mesi ricomparve sul computer il nome di Cincinnatus con un saluto: «Ciao». Glenn approfittò di quella riapparizione per farsi dire come fare ad installare il programma Pgp e con l’aiuto del paziente Edward ci riuscì, così finalmente fu in grado di ricevere i primi documenti top secret. Bastò una rapida lettura che Glenn si precipitò a telefonare a a Janine Gibson, suo capo basato a New York. Il giorno dopo era su un aereo diretto da Rio al Kennedy e il 31 maggio era alloggiato in un hotel di Manhattan. La reazione fu quella prevista, andare avanti con questa storia e il 2 giugno Glenn con una sua amica atterrarono a Hong Kong, dove Snowden aveva dato loro l’appuntamento. «Raggiungetemi nel mio hotel», aveva detto. Dando istruzioni dettagliate: salite al terzo piano, ci incontreremo in una saletta senza bisogno di nascondersi per non destare sospetti, c’è una saletta di passaggio con un divano e un alligatore gigante in plastica, aspettatemi un paio di minuti, io arriverò alle 10 o alle 10,20. «Potrete riconoscermi perché terrò in mano un cubo di Rubik». L’hotel era il Mira, un superlusso da centinaia di dollari a notte, in una zona di prima cetegoria della città. Andarono al terzo piano come convenuto ma alle 10 non si presentò nessuno. Riprovarono alle 10,20 e nel giro di un paio di minuti sentirono qualcuno che entrò nella saletta. Si girarono elo videro che giocherellava tenendo nella mano sinistra un cubo di Rubik.

SNOWDEN aveva 29 anni ma ne dimostrava molti meno, indossava una t-shirt bianca con una scritta scolorita, aveva un paio di jeans e inforcava occhiali con una montatura pesante, era guardingo e aveva una postura militaresca. Disse: «Se volete seguirmi…». Presero l’ascensore e salirono al decimo. Entrarono in una stanza. «Scusate il disordine», fece. C’erano pile di piatti sporchi e vestiti sparsi ovunque. Si sedette sul letto. Chiese di togliere la batteria dai cellulari e pretese di chiuderli nel frigobar, perché avrebbe fatto da isolante rendendo più difficile l’intercettazione. Il governo americano infatti è in grado di attivare a distanza i cellulari trasformandoli in microfoni. Poi Edward Snowden cominciò a parlare. Giorni fa si è saputo che spiavano anche tutti gli uomini del presidente Berlusconi e lui stesso. Oggi chi spiano?