È CAMBIATO davvero l’Iran con il presidente Rouhani? Quasi bisbiglia l’iraniana Shirin Ebadi, Premio Nobel per la pace, in esilio perché, se rientrasse, la sua vita sarebbe in pericolo: «Non so, guarderò e aspetterò con ansia, con speranza». Non è di buon auspicio il fatto che nel governo di Rouhani (il leader per il quale vennero occultate le statue nude di Roma, ricordate?) ci sia come ministro un signore che è accusato di sterminio di massa. Né si può dire che oggi l’Iran sia cambiato dal momento che un uomo può ancora continuare a sposare quattro donne mentre una donna sposata non può viaggiare se non con un permesso scritto del marito. E dopo l’elezione di Rouhani a Teheran le donne non possono più lavorare nei caffè e nei ristoranti, perché considerati mestieri immorali. Ma nell’accordo Usa-Iran gli interessi sul nucleare hanno prevalso sui diritti civili.

SHIRIN Ebadi ha scritto un doloroso libro di memorie con un titolo che sembra un traguardo lontanissimo, “Finché non saremo liberi”, edito da Bompiani. E in queste pagine si capisce che la vita di questa donna sarebbe stata normale se non si fosse imbattuta in ingiustizie intollerabili, che l’hanno spinta a ribellarsi, come l’impiccagione di una bambina di 16 anni per aver fatto sesso e quindi per essersi resa colpevole del “reato contro la castità”. O come la legge che ha consentito di scarcerare tre stupratori e assassini di una bambina di undici anni perché la famiglia della vittima non poteva permettersi di pagare la loro esecuzione, procedura giustificata dalla pretesa che nella legge islamica vale più la vita di un uomo che quella di una bimba.

E non è stata inferiore la crudeltà di quello Stato nei riguardi della stessa Ebadi per il fatto di aver vinto il Nobel, notizia che per ordini superiori venne occultata dai media e che l’allora presidente Khatami definì “un premio non molto importante”.

Il grande persecutore di Ebadi – che fu la prima donna presidente di una sezione del tribunale di Teheran, poi, dopo la Rivoluzione islamica, costretta come tutte le donne ad abbandonare la magistratura – fu Ahmadinejad, durante i suoi otto anni di presidenza, anche lui oggi riciclato essendosi tenuto buono negli anni del potere la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, che dopo la sconfitta elettorale l’ha protetto.

VIVEVA già all’estero Shirin quando dovette sopportare il complotto in cui rimase invischiato suo marito che era rimasto a Teheran e che fu accusato di adulterio, reato punito con la pena di morte mediante lapidazione. Sotto ricatto, l’uomo che fu sottoposto a detenzione e tortura, accettò di diventare l’accusatore numero uno di sua moglie, da lui additata come spia in un filmato che fu trasmesso dalla televisione, secondo le migliori regole dei metodi forcaioli. I servizi segreti iraniani gli ordinarono di dire davanti alle telecamere di Ahmadinejad: «Lei ha ricevuto il premio Nobel solo per rovesciare la Repubblica islamica. Era una sostenitrice dell’Occidente e in particolare dell’America».

Il coronamento della persecuzione venne ottenuto con altre falsità. Si inventarono che Shirin Ebadi non aveva pagato le tasse sulla somma di denaro ricevuta con il Nobel, un milione e 200 mila dollari. Una donna avvocato si offrì di difenderla e venne arrestata accusata di “atti contrari alla sicurezza nazionale”.

IN BREVE fu decisa l’espropriazione di tutti i beni della Ebadi, distruggendo un patrimonio che era stato costruito in 34 anni di matrimonio, lei era avvocato il marito ingegnere. Il tutto disperso a prezzi stracciati, che ebbero un duplice scopo, far spendere poco i parenti dei funzionari statali che se ne impadronirono e non raggiungere la cifra del debito che le veniva contestato in modo da rendere permanente il debito e la minaccia di ulteriori espropri.

La sceneggiata televisiva dell’incauto marito che era stato filmato durante l’incontro con una donna che aveva fatto da esca concluse l’opera di demolizione.

Il marito piagnucolò in tv: «Non rispettava i diritti umani nemmeno in casa nostra. Litigavamo e lei mi aggrediva e mi picchiava». Per l’incolumità dello stesso marito a Shirin non rimase come scelta obbligata che andare al divorzio.

PER I SERVIGI ricevuti la polizia politica gli concesse il permesso di andare a Boston per un mese per poter incontrare figlia e moglie. Era il 2012. Scrive Ebadi: «Non era mio marito quello là fuori in salotto, era solo il suo involucro. Un uomo spezzato. Sembrava avere dieci anni di più. Restava seduto in un angolo per ore senza dire una parola». E lui disse a lei, come se avessero entrambi fallito: «Se vuoi essere onesta, devi ammettere che tutti i tuoi sforzi sono stati vani. L’unica cosa che sei riuscita a fare è stata rendere infelice te e la tua famiglia».

Così lei giunge a questa amara riflessione: «Avevo quasi 65 anni e non potevo cambiare di punto in bianco le mie idee e i miei valori o il mio stile di vita. Non potevo abbandonare tutto quello per cui avevo vissuto la maggior parte della mia vita. Ma quel giorno sorse dentro di me un senso di colpa che mi sarebbe rimasto per sempre. A tutte le mie sofferenze dovevo aggiungere questa: la fine del mio matrimonio, perché capii che porre fine al nostro matrimonio era l’unico modo in cui potevo davvero proteggere mio marito». Scelse di rimanere a Londra, che elesse come base del Centre for supporters of human rights. Era la fine del 2013.