TUTTO cominciò nel solito modo. Arrivò la polizia a sirene spiegate, irruppe nel locale. “Polizia!”, gridò l’ispettore Pine. “Tutti contro il muro! Forza! E tu, che hai da guardare, finocchio?”. Tale era il frastuono che quasi non si udiva più la voce di Judy Garland, sì, la mamma di Liza Minnelli, che stava cantando “Over the rainbow”, quella che dice: “Sopra l’arcobaleno ci sono i sogni che hai osato fare…” Dev’essere per questa ragione che poi quella musica è diventata l’inno dei gay. Ovviamente era solo un disco perché la dolce Judy era stata sepolta il giorno prima, e come fosse diventata un’icona gay non saprei dire, visto che era stata trovata imbottita di barbiturici dal quinto marito. Una collezione di uomini che certo non la collocava nelle file del movimento omosessuale.

La notte di venerdì 28 giugno 1969 segnò la svolta nella storia del movimento mondiale per i diritti omosessuali perché quella retata, che sembrava una delle tante, provocò un incendio. Un episodio che da oggi si può rivivere nelle sale cinematografiche in Italia con il film “Stonewall” del grande Roland Emmerich. La rivoluzione Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) partì da quel localino in mattoni rossi che aveva il nome sulla vetrata al numero 53 di Christopher Street al Greenwich Village di New York City. Un locale balordo perché dicono appartenesse alla famiglia Genovese, Cosa Nostra. Era un posto fuoriregola, non aveva la licenza per vendere alcolici ma li vendeva, non aveva acqua corrente tant’è che i bicchieri li lavavano nelle bacinelle, si entrava firmando un registro ovviamente con nomi inventati, come se fosse un club privato, ma era, ecco il punto, l’unico locale gay della Mela in cui si potesse ballare e trovare una quantità di “go-go boys”, quei ragazzi da intrattenimento che in genere non si distinguevano per essere molto vestiti.

PER la polizia entrare allo Stonewall era come andare a colpo sicuro. Ma quella retata fu la goccia che fece traboccare il vaso, perché era da troppo tempo che la polizia esagerava. Si era inventata che i gay dello Stonewall mettevano in pericolo Wall Street, perché tanti clienti operavano nella finanza ed essendo ricattabili diventavano prede della malavita. E poi quelle retate finivano sempre sui giornali con i nomi non solo degli arrestati ma anche dei semplici identificati. Una gogna e comunque per finire in gattabuia bastava tenersi per mano, non dico indossare abiti del sesso opposto ma molto meno. In molti casi bastava farsi trovare in quei bar, soprattitto da quando nel ’65 fecero sindaco il repubblicano John Lindsay.

Per non parlare dei metodi, come l’adescamento. Per incastrare un gay lo facevano avvicinare da un poliziotto in borghese, quello fingeva di starci e una volta che l’altro si dichiarava finiva in manette. Fu per questo che la pressione dei benpensanti mostrò in tutta la loro fragilità i metodi educati usati dagli omosessuali della “Mattachine Society”, che era una specie di setta, di società segreta. Un’idea bella ma romantica di Harry Hay, il fondatore, che si era ispirato ad un gruppo teatrale francese del Medioevo che recitava in maschera e organizzava danze rituali di primavera con le quali denunciava i soprusi dei padroni terrieri. Hay fondò anche le “Fatine Radicali”, delicato movimento ecologista molto New Age.

MA INSOMMA che cosa successe quella notte di prima estate? Successe che gli otto poliziotti dell’irruzione, tanti erano, si trovarono presto assediati da una folla inferocita di duemila persone e paradossalmente per sfuggire non solo al lancio di pietre che seguì quello delle monetine ma direi piuttosto per salvarsi dal linciaggio, furono costretti a rifugiarsi dentro lo Stonewall, ovvero dentro il paradiso dei gay.

Comico no? In quel paradiso riuscirono comunque a trascinare, e questo fa capire i loro metodi, a trascinare a forza di manganellate un famoso cantante, oltretutto molto eterosessuale, come Dave Van Ronk, che era un mito del Village. Chi era Dave lo sapevano tutti meno quegli agenti evidentemente. Era l’amico di Bob Dylan e l’autore della più famosa versione del traditional “The house of rising sun”.

Anche quella rivoluzione ebbe una Marianna e si chiamava Sylvia Rivera, un maschio poco maschio che dette il via alla rivolta lanciando contro gli agenti una bottiglia, ma altri giurano fosse una scarpa con il tacco a spillo. Molto pittoresco.

LA BATTAGLIA durò fino alle 4 del mattino, con l’arrivo anche delle squadre antisommossa, quelle che venivano usate contro i cortei per la guerra nel Vietnam. Una battaglia mai vista con una parte dei combattenti che lanciava pietre e cantava in falsetto: “Siamo le ragazze dello Stonewall/ abbiamo i capelli a boccoli e non abbiamo le mutande/ indossiamo solo jeans/ sopra i nostri ginocchi da checche!” Si tornò a combattere la notte dopo e un’altra notte ancora e da allora ovunque sorsero movimenti omosessuali.

In Italia la prima manifestazione si tenne a Sanremo il 5 aprile 1972, durante un congresso cattolico sulle “devianze sessuali”, e il primo Gay Pride fu quello di Roma nel 1994, 25 anni dopo i moti del Village. Davanti allo Stonewall Inn oggi c’è un monumento. E’ una scultura in bronzo di George Segal che rappresenta una coppia di donne e una di uomini.