E’ stato l’ultimo a far riassaporare il gusto popolare del ciclismo. L’ultimo che abbia saputo trascinare la gente alla passione. Si chiamava Marco Pantani e il 14 febbraio saranno trascorsi dieci anni dalla sua morte. “In nome di Marco – La voce di una madre, il cuore di un tifoso” (Rizzoli) è il libro scritto a quattro mani da Tonina, la mamma del Pirata, e dal giornalista Francesco Ceniti. Storia, ascesa, caduta, catabasi e morte dell’ultimo grande del ciclismo.
La signora Tonina e Francesco mi perdoneranno un modesto riferimento personale. Credo di non avere perduto in televisione una sola delle imprese di Marco. L’ho visto di persona, un’unica volta, a Torino, un giorno di novembre del 1999. Indagato per i valori del sangue “impazziti”, era stato interrogato e aveva scelto il silenzio. Mi era parso incredibilmente piccolo, minuto, pressato e quasi fagocitato da una calca indescrivibile di giornalisti, fotografi, operatori televisivi, la nuca sottile che si muoveva appena in segno di assenso o diniego, la voce pacata e quasi flebile, quando finalmente riuscii a protendermi verso di lui, a spiegare che tutto era durato non più di dieci minuti e che aveva affidato la sua difesa a un memoriale.  Chissà perché mi diede l’impressione di un uomo infinitamente solo.
Il libro riserva una rivelazione sorprendente a proposito dell’episodio che fece da spartiacque nella vita di Marco e segnò l’inizio della sua discesa verso  l’inferno. In maglia rosa a due tappe dalla fine nel Giro d’Italia del 1999, controllato il 5 giugno a Madonna di Campiglio, Pantani fu escluso dalla corsa e dal sicuro trionfo per ematocrito fuori norma, valore a 51,9 quando il massimo consentito era 50. Secondo il libro, venne clamorosamente violato il protocollo Uci alla prescrizione che “il prelievo potrà iniziare dopo che l’atleta avrà scelto la sua provetta …”. Quel giorno, invece, il flaconcino dove finì il sangue del campione di Cesenatico  era stato preso del medico delegato.
Un ricorso d’urgenza della sua società avrebbe mantenuto in gara il Pirata, ribaltato la storia e forse anche sovvertito il destino. “La sera che Pantani è morto, ho anche pianto. Non mi vergogno a scriverlo”, confessa Ceniti. No, non c’è nulla di  cui vergognarsi. Ricado nell’autobiografico. Il ricordo di quel 2 gennaio 1960 resta per me incaccellabile. La  nebbia, il gelo, la tristezza infinita di una giornata senza luci. Le lacrime segrete di un bambino che era andato a nascondersi in un sottoscala perché gli altri non fossero testimoni del suo pianto. Era morto Fausto Coppi. Questo libro è scritto con rabbia, dolore, affetto. E’ soprattutto un atto d’amore. Amore vero. Quello che, se vuole, sa essere più forte anche della morte.