Furono sette anni di una guerra civile mai dichiarata ma cruenta, ferocissima, irrorata dal sangue di duemila morti. Caddero carabinieri, poliziotti, soldati gettati allo sbaraglio (i primi mitra furono quelli tolti ai malviventi  uccisi) che s’immolarono in nome di uno Stato assente o comunque indesiderato. Comunisti e sindacalisti che sognavano un mondo nuovo. Nostalgici del regime che vagheggiavano una Vandea nera. Banditi feroci e banditi per caso. Povera gente incolpevole. Una storia che si dipana dallo sbarco degli Alleati (10 luglio 1943) all’uccisione di Salvatore Giuliano (4 luglio 1950), quella magistralmente raccontata da Alfio Caruso in “Quando la Sicilia fece guerra all’Italia” (Longanesi, pagg. 320).

Pupi grotteschi, molto più spesso tragici, manovrati da un unico puparo: quello che in un altro libro, “Perché non possiamo non dirci mafiosi”, il siciliano Caruso individuava con l’acronimo Pus, Partito Unico Siciliano. Partito trasversale ad aggregare boss mafiosi, politici, imprenditori, professionisti, uomini di potere nutriti di privilegi che avrebbero difeso a ogni prezzo, purché fosse quello della pelle altrui. Si iniziò con il Movimento Indipendentista Siciliano di Andrea Finocchiaro Aprile. In seguito, quando dagli Usa arrivò il pollice verso all’indipendentismo, il Pus fu pronto a nuovere altre pedine in quello scacchiere di terrore e anarchia. Furono i fascisti del “Non si parte”, la rivolta contro la leva obbligatoria. Furono anche i diseredati che si trovarono ad animare la guerriglia per il pane o ad animare rivolte come quella di Comiso, dove fu proclamata la Repubblica Indipendente. Fu Salvatore Giuliano, il bandito più famoso della sua epoca, il collante buono per ogni tragica stagione. Fino a quando, inutile e troppo incomodo, l’uomo di Montelepre venne freddato dal luogotenente Gaspare Pisciotta con due colpi di calibro 9. Ma fu davvero l’ondivago Aspanu ad eliminare Turiddu, che in maglietta e mutande gli dormiva accanto in casa dell’avvocato Di Maria, a Castelevetrano? Caruso, uno storico che non ha dimenticato il mestiere del (grande) cronista, ricorda un’antica romanza che cantava  un “Turiddu valoroso e buono, tradito da Aspanu e ucciso da ‘tre dita’ “. “Tre dita” fu uno dei primi soprannomi dati a Luciano Leggio detto Liggio. Um promettente picciotto con un futuro di capo.