I miei vecchi non parlavano molto della Grande Guerra. O meglio, non ne parlavano per niente. E pensare che ne avrebbero avute di cose da raccontare. Nonno Celestino era andato al fronte lasciando moglie e due figli. Nonno Luigi era partito con il corpo di spedizione italiano in Albania. Lo zio Giuseppe, suo fratello, era un ragazzo del ’99. Lo zio Gino era sul Montello, aveva visto l’apparecchio di Francesco Baracca abbattuto e dopo la guerra aveva seguito d’Annunzio a Fiume. L’unico a soddisfare in parte la mia fame di racconti era lo zio Gusto (Augusto), marito della sorella della mia nonna materna, il più ciarliero di tutti.
A raccontare erano le donne di casa. Giusto che fosse così. Avevano sostituito gli uomini nel lavoro dei campi. Li avevano attesi, ogni giorno con la paura di vedere comparire in fondo alla strada le lucerne dei carabinieri che portavano una lettera. Al ritorno dei soldati in grigioverde ne avevano ascoltato, uniche, i racconti, li avevano riposti nell’armadio della memoria, li tramandavano ai figli, ai nipoti. Ogni famiglia, ogni parentado aveva così la sua memoria storica. Donne. Grandi donne che avevano vinto la loro guerra.