QUESTA ESTATE ho letto tanti ricordi di Marta Marzotto, figlia di un casellante della Lomellina e di una mondariso. Questo mi ha fatto riflettere sulla realtà dei caselli ferroviari. Credo che molti siano ormai in disuso, ma ce ne sono anche di abitati dai casellanti e dalle loro famiglie, soprattutto nel Sud. Mi pare che si tratti di una realtà molto interessante, i nostri caselli rappresentano un patrimonio edilizio che potrebbe essere riconvertito e reimpiegato per scopi sociali, culturali, ricreativi. Roberto, Pavia

È VERO che si tratta di un patrimonio imponente. Lo dimostra la polemica nata tre anni fa quando Ferservizi, la società che gestisce le proprietà immobiliari del gruppo Ferrovie dello Stato, inviò una raccomandata alle famiglie di 432 case-caselli: famiglie di capistazione, capitreno, macchinisti, entrati in ex caselli versando a Ferservizi un affitto ad equo canone, oltre a sobbarcarsi spese considerevoli per la ristrutturazione. Il caso approdò anche in Parlamento. Il ministero Infrastrutture e trasporti tranquillizzò: si trattava di una formalità contrattuale, nessuna iniziativa di sfratto.

DIVERSO il discorso sul recupero dei caselli dismessi. Qualcosa si muove anche in questa direzione. Lo scorso giugno a Castegnato, nel Bresciano, sono iniziati i lavori di recupero dei caselli di via Cavezzo e di via Roma. Il bando, lanciato un anno fa da Ferrovie Nord per affidare in comodato d’uso i caselli inutilizzati, è stato aggiudicato all’associazione “Irene e Maria” e al Gruppo Astrofili-Deep Sky. In Sardegna Macomer è il Comune capofila di un progetto che punta al recupero, alla riqualificazione e alla riconversione delle stazioni e dei caselli ferroviari delle linea MacomerBosa, una delle prime ferrovie a scartanento ridotto realizzate in Sardegna. Tutto è possibile perché le Ferrovie hanno deciso di cedere in comodato d’uso gratuito oltre 1.700 edifici ferroviari “impresenziati”, distribuiti su tutto il territorio nazionale. Valore globale degli immobili circa 120 milioni di euro.

ALLA GRANDE MARTA tutto questo sarebbe piaciuto. La sua famiglia si era trasferita da Reggio Emilia a Mortara sul carretto trainato dal mulo Nello, cieco da un occhio. Marta era ancora la signorina Vacondio e lavorava la lana che qualcuno si incaricava di rubare alla filatura Marzotto. Il matrimonio con il conte Umberto, comproprietario con i fratelli di una grande azienda tessile, era ancora tanto lontano. Degli anni trascorsi nel casello, Marta Marzotto ricordava con tenerezza le vacanze estive, quando andava per rane con il fratello Arnaldo, e le notti trascorse su un materasso di granoturco. Divideva la camera con la nonna Marcellina, una vigorosa contadina emiliana che la sera si spulciava prima di spegnere la luce. [email protected]