Milano, 8 ottobre 2016 – «C’’è stato un incidente a Linate. Un aereo, si è staccata un’ala». Fu la prima telefonata, quella mattina di lunedì, piena di nebbia. E fu subito una corsa folle, cercando di sfruttare la scia dei mezzi della polizia che sfrecciavano in direzione dell’hub. Intanto la radio trasmetteva le prime notizie, parlava di cinque, sette, otto morti. Alla tragedia si mescola spesso il grottesco. Un’auto della Stradale bloccava l’imbocco di viale Forlanini. Inutili le spiegazioni di essere un giornalista. Inutile lo sventolio di tessere. Inutili le preghiere, le suppliche così come i toni perentori. «Faccia un fax e chieda di essere autorizzato a passare», fu l’epilogo di quel vano cozzare contro il muro dell’incredibile.

Quasi precipitandomi da una scarpata, raggiunsi a piedi il viale, che iniziava a essere percorso da curiosi a piedi e in bicicletta, l’unico mezzo di locomozione consentito in quel frangente. Fermai un ciclista, bicicletta da corsa. Mi offrì un passaggio sul sellino, iniziò a pedalare. Lo pregavo di fare presto e non mi scaricò. Mi presentai all’aeroporto così, il borsello sulla spalla destra, il computer sulla sinistra. Ho perduto le tracce di quell’angelo salvatore montato su un biciclo. A quindici anni di distanza vorrei poterlo ringraziare. Ammesso che sia mai esistito e che non fosse invece l’angelo custode dei cronisti. Le ambulanze erano allineate. Ferme. Inutili. Il primo segnale della tragedia. I rottami del Boeing che sarebbe dovuto decollare per Copenaghen ardevano ancora. «Sono tutti morti», sussurrò un agente sfiorando il plotone sempre più folto di giornalisti, fotografi, operatori televisivi.

Con Paola D’Amico, Tino Fiammetta, Enrico Fovanna, compagni di tante battaglie, con la corrispondente Patrizia Tossi, con i colleghi accorsi in redazione, imbastimmo l’edizione straordinaria. Da Linate dettammo a braccio i “pezzi” che la bravissima Noemi prese al dimafono. Fu una pagina di grande giornalismo che vide Il Giorno mettere in campo tutto il suo orgoglio. Le ore trascorrevano. La sciagura appariva ormai chiara, evidente, in tutte le sue terribili, catastrofiche, assurde dimensioni. Nel pomeriggio ci si mise alla ricerca dei familiari delle vittime. Un’apparizione, un uomo che mi si materializzò al fianco, scaturito da chissà dove. «Pensare – mormorava trasognato – che ieri era con noi, eravamo a tavola insieme». Giuseppe Nervi, bergamasco. Sul volo della Sas era salito il genero Simone Zanoli, marito di sua figlia Marzia. Con Giuseppe siamo diventati amici, abbiamo anche scoperto di essere coetanei. Ogni volta mi fa grandi feste, come a un amico ritrovato, che mi commuovono e mi straziano. La sera, in quell’hangar. Quei 118 sacchi candidi. Le mie narici imprigionarono l’odore della carne bruciata. È rimasto nel tempo, insieme con quello della terra fradicia d’acqua, del muschio marcito, in Valtellina, dopo il disastro del 1987. Questa è stata la “mia” Linate.