Giuseppe Pagliani è forse il simbolo della prima puntata di questo storico processo emiliano. Pagliani fa l’avvocato, è consigliere comunale a Reggio Emilia di Forza Italia, nel 2015 si è fatto 23 giorni di carcere e ne è uscito massacrato, politicamente e umanamente. Ieri pomeriggio si è scoperto che forse è stato tutto uno scherzo, forse qualcuno si è sbagliato, forse questo intreccio perverso ‘ndrangheta e politica non era poi così perverso. Giuseppe Pagliani è stato assolto, senza ombra di dubbio. Così come non era un delinquente Giovanni Paolo Bernini, ex assessore comunale a Parma, l’altro politico nel mirino.
Poi stop, fra gli altri 235 signori finiti nel mirino della giustizia non ci sono politici. Attenzione, non stiamo dicendo che la mafia non esiste e che è stata tutta una montatura. Tutt’altro. L’inchiesta, formidabile da certi punti di vista, ha finalmente portato alla luce del sole un’avanzata terrificante della ’ndrangheta al nord, partita trent’anni fa ed esplosa nell’ultimo decennio. Le condanne (57) sono tante, altre ne arriveranno dal processone di Reggio Emilia (147 imputati, nessun politico) ma ogni tanto è giusto anche riflettere sulla sorte degli assolti (14 ieri).
E allora torniamo al solito tema della detenzione preventiva che da Tangentopoli in poi è diventata un buco nero tutto italiano. Ma siamo sicuri che sia sempre così necessaria? Pagliani si è fatto 23 giorni dietro le sbarre e gli è andata anche bene, perché c’è gente che, dal giorno del blitz (gennaio 2015), è rimasta a marcire in galera, magari in regime di carcere duro. Fino a ieri, quando qualcuno ha detto: «Ci siamo sbagliati, esca pure». In nome della legge.