Pacem in terris

Karibu, dentro il villaggio masaai

Endulen, 4 ottobre 2012

ENDULEN si staglia su un sottile strato di argilla rossa, sulla bocca del cratere di Ngorongoro, a quasi duemila metri di altezza. Un vento fresco accarezza i pochi alberi del villaggio, fondato dai masaai una trentina di anni fa per offrire un tetto sicuro alla tribù nei suoi lenti, costanti spostamenti alla ricerca di pascoli verdi.

L'aria libera gli umori di un'esistenza spartana, senza troppe concessioni all'igiene, almeno per come lo intendiamo in Occidente. A Endulen l'ospite deve adattarsi in fretta al lezzo dolciastro che percorre le narici, scende alla bocca dello stomaco e là ristagna. Da queste parti i rifiuti si abbrustoliscono alla luce del sole, l'acqua è un bene troppo prezioso per disperderlo in docce frequenti, i vestiti puliti si riservano per le grandi occasioni, le scarpe non sono poi così essenziali per muoversi nella giungla.

Anche i medici non riscuotono particolare successo. Gli indigeni si fidano solo di piante officinali e delle formule magiche dei guaritori. Nella cultura masaai la chimica resta l'ultima spiaggia. Solo dopo giorni - o settimane - di cure tradizionali, se il paziente non si è ripreso e, soprattutto, se è ancora vivo, lo si accompagna al più vicino ospedale. A piedi. Roba da far rabbrividire i devoti dei santi brufen e paracetamolo.

Nel villaggio le mosche svolazzano senza sosta. Una bambina, cinque-sei anni non di più, mi viene incontro. È avvolta dagli insetti, dalla testa ai piedi. Con angoscia ricapitolo tutte le malattie alle quali è esposta, io che ho studiato ipocondria dal Malato immaginario di Moliere. I nostri occhi si incrociano e ho come l'impressione che indovini la mia mente: mi fa una smorfia, si gira ed è già a giocare nella polvere con gli amichetti. Da lontano la nonna non la perde di vista, sdraiata sull'argilla. Chissà quante corse avrà fatto anche lei da piccola in un villaggio come Endulen. Qui i decenni passano solo sul calendario...

Non c'è tempo per i sofismi, La nostra guida masaai mi riporta con i piedi per terra. Vuole farci visitare una perfetta casa della tribù, tutta fango, paglia, bambù e legno. Tentenno, ma lui è mia moglie sono già sull'uscio. Entriamo. L'assenza di luce è totale nel cunicolo angusto, alto non più di un metro e cinquanta, che sfocia in una stanzetta circolare. La sola della capanna. Sul lato sinistro dormono le donne (le mogli - la tribù legalizza la poligamia - e le figlie), dall'altra parte i maschi. In tutto sette persone, più qualche pecorella.

Non ci sono coperte, solo pelli di mucca e un braciere che garantisce un flebile tepore contro i precipitosi sbalzi termici della notte. Di giorno, invece, il caldo è opprimente e il sudore si appiccica alla carne. Il ricambio dell'aria è affidato a un pertugio striminzito, dal quale filtra qualche raggio di sole. Ma è come se non ci fosse nulla. Manca il respiro, tanto che mi domando come questa gente riesca a vivere dentro una casa simile. Miracoli della povertà.

Nella capanna si dorme, chiacchiera, cucina, anche se la dieta dei masaai è tutt'altro che varia. La pastorizia è l'unica fonte di sostentamento della tribù. Il giorno di mercato bambini e adolescenti camminano ore e ore a piedi fino alle periferie delle città vicine, conducendo ovini e vacche di famiglia. Qui scambiano i capi di bestiame con stoffe, vestiti, scarpe o materiali di scarto che le mani sapienti delle loro madri poi trasformano in utensili da cucina o sartoria. Di frutta e verdura non se ne parla.

I masaai si cibano solo di carne e latte, con l'aggiunta, in occasione delle feste più prestigiose, di pasti a base di sangue d'agnello. Per la verità, quest'ultima 'prelibatezza' è riservata ai soli guerrieri, ovvero ai maschi che hanno subito la circoncisione, preso moglie e compiuto i vent'anni di età. A detta della guida è un piatto da gourmet... Sarà, ma il mio stomaco é già in subbuglio. I polmoni reclamano aria. Sono fuori dalla capanna, finalmente respiro. No, non sarei mai un vero masaai.

Giovanni Panettiere

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